di Marcello Carlotti http://www.tribalnetworking.net/
Matteo Cara, nato in Sardegna e vivi a Nuoro, ti sei laureato in Geografia a Genova con una tesi di ricerca sul Supramonte e, fra le tante altre cose, sei attualmente Ricercatore I.S.R.E. Qualche mese fa, poi, hai pubblicato il libro «Sentieri». Sei insomma molto attivo e dedichi molta energia e passione per creare connessioni e percorsi culturali. Prima di approfondire la questione dal versante professionale, viene spontaneo chiederti: in che modo, con un simile background, vivi il tuo senso di identità e appartenenza e quali sono i luoghi a cui senti più legata la tua cultura? Comincerei col dire che vivo con molto sospetto il cosiddetto senso di identità: parafrasando Remotti, mi verrebbe da dichiarare che sono “contro l’identità”. Ritengo infatti che in Sardegna si tenda a costruire costantemente una versione di sé stessi che risponde in realtà a quel che di noi viene visto dagli altri, una sorta di stereotipo da realizzare, invece di una cultura da ereditare. Questo si trasforma in una ossessione per aspetti della nostra cultura che diventano immutabili e fossilizzati, finendo con il limitare specificità locali che avevano inevitabilmente una componente personale e dinamica. Parlare di cultura dei luoghi e della storia, ovvero di cultura delle geografie e del paesaggio, lo ritengo invece fondamentale per capire la complessità della realtà attuale e passata ed in questo senso l’esperienza che sto concludendo all’I.S.R.E., come ricercatore sui paesaggi culturali per il prossimo PPR regionale, mi ha dato l’opportunità di accorgermi e definire le straordinarie sfaccettature paesaggistiche di cui è ricca la Sardegna. Mi sento legato essenzialmente a questa molteplicità di aspetti del paesaggio sardo: verrebbe da dire quasi che nell’isola vi è una immanenza del paesaggio, poiché le sue compenetrazioni fisiche, umane e storiche si impongono costantemente alla attenzione dello spettatore. Un sardo non può che ereditare la consapevolezza di queste dinamiche, con profondità maggiore o minore a seconda della sua sensibilità.
Avendo scelto di proseguire in una carriera di ricerca con un focus sui paesaggi rurali, cosa vuol dire trasformare lo studio in professione? Come si alimenta la passione e come si affrontano i sacrifici di una vita vissuta nel tracciare passaggi oltre i confini? Soprattutto, da sardo e da geografo, come ritieni che la Sardegna si stia muovendo per conoscere meglio le ricchezze del suo territorio e, soprattutto, per raccontarsi di là dal mare? A dire la verità, il lavoro sui paesaggi rurali, sulla sentieristica e sulla storia rurale sarda è stata più una casualità che una scelta. Una casualità che nasce dalla passione che ho avuto sin da giovanissimo per la conoscenza delle aree più impervie, come il Supramonte, vissuto sia arrampicando che esplorando con tecniche alpinistiche molti dei suoi angoli, e si sviluppa con gli studi accademici e con alcuni ruoli di responsabilità nel servizio cartografico nazionale del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico e del CAI nazionale. Mi sono trovato a unire le competenze di cartografia digitale, richieste da queste due organizzazioni, con le competenza acquisite sul campo. In particolare il CNSAS, data la sua spiccata attitudine operativa, impone ai suoi quadri una costante interazione tra la pratica reale, la conoscenza del territorio e l’utilizzo di strumenti analitici e digitali di raffinata elaborazione. Una volta acquisita questa mentalità è più logico trasferirla nei campi del paesaggio rurale in senso stretto e nella pianificazione e sviluppo sostenibile. Per fortuna o purtroppo, in Sardegna, siamo molto indietro su questi aspetti, nonostante siano a mio parere i primi da considerare per, come mi si chiede nella domanda, “raccontarsi al di là del mare”. Questo mi da la possibilità di alimentare un continuo entusiasmo muovendomi in zone di ricerca poco battute, anche quando le gratificazioni economiche tardano ad arrivare. Ritengo che in Sardegna si stia imparando a capire che per raccontarsi si debba innanzi tutto conoscersi a fondo, ma anche che questa operazione vada fatta con una analisi dinamica, molto attenta ai propri cambiamenti nel passato ed in quelli, inevitabili, del futuro. Il grosso pericolo sta, ancora, nel fornire a sé stessi e proporre agli altri una visione stereotipata della propria identità, senza comprenderne la natura che è fisiologicamente dinamica nel tempo e nel confronto con gli altri. La giusta modalità di affrontare questa problematica va, secondo me, al di la di ogni marketing territoriale e turistico ed attiene più alla cultura dei singoli operatori della promozione della Sardegna oltremare: la sfida sarà muoversi nel mondo da sardi, ma come sardi del mondo e non semplicemente come sbiadite icone di un proprio passato.
Come è nato il tuo interesse per la Geografia? Al di là della concezione scolastica – che purtroppo spesso banalizza quest’ambito ai nomi delle Capitali e delle Catene Montuose – quali sono le cose che la Geografia può insegnare al mondo occidentale? Una delle domande – tipo che vengono rivolte a un laureato in Geografia è, ahimè, “dimmi le capitali”. Questo la dice lunga sulla conoscenza diffusa che in Italia abbiamo della Geografia e del paesaggio: semplicemente, nessuno ce ne ha mai parlato e non abbiamo realmente idea di cosa significhino questi termini, perciò li associamo ad una banale descrizione di insistenza spaziale, fissa e statica. Personalmente, cercavo una scienza che potesse spiegarmi quel che vedevo e percepivo intorno a me senza riuscire ad inquadrarne le dinamiche. Mi sono imbattuto nella definizione di paesaggio, scoprendo che in realtà esso è molto più di ciò a cui normalmente lo associamo nell’utilizzo giornaliero di questo termine. Da qui il passo verso gli studi geografici è stato abbastanza logico, poiché solo la Geografia è in grado di dare un aspetto analitico di sintesi sia sui fenomeni fisici che su quelli antropici del paesaggio. Spiace vedere che tematiche di questo tipo, che suscitano sempre un grande interesse per ogni tipo di platea, siano relegate al nozionismo più puro nella didattica media e superiore. Ciò che invece la Geografia realmente ci insegna è la relazione: la relazione tra il mondo fisico, quello umano e i processi che questa relazione determina. È interessante notare che in Geografia raramente si parli di prodotti e più spesso (e giustamente) di processi: questi ultimi implicano una visione dinamica dei fenomeni fisici, biologici, antropici, storici ed il racconto di questi processi è estremamente affascinante e potrebbe avere un ruolo straordinario nella consapevolezza di sé stessi nel mondo.
Girando per il mondo, una delle prime domande che ci si scambia è relativa alla terra d’origine. Generalmente tu cosa rispondi e quali sentimenti suscita in te quella domanda? È una domanda che sottintende la curiosità di conoscere non solo la provenienza geografica di chi ci sta di fronte, ma anche e soprattutto quella culturale. Non posso che rispondere che sono sardo e nel dirlo mi sento culturalmente sardo.
La Sardegna si denota per una incapacità di fondo a creare collaborazioni e sinergie virtuose. La parola chiave, per molti, è «invidia». Eppure tu, con la tua esperienza di Sentieri, hai dimostrato che forme di collaborazione virtuosa sono possibili. Quali sono i presupposti che una collaborazione richiede e dai quali non può prescindere? Come immagini le future generazioni sarde? Partirei proprio dall’esperienza, recentissima, della pubblicazione del mio libro per utilizzarla come esempio. “Sentieri” è un libro divulgativo, una guida di trekking che affronta poco più di 40 itinerari nelle montagne di Baunei, Dorgali, Oliena, Orgosolo ed Urzulei, in quello che è più noto come Supramonte. Da questo mio piccolo preambolo si capisce che ho dovuto necessariamente confrontarmi, dato che io sono ed abito a Nuoro, con persone che hanno vissuto e conoscono queste montagne. La chiave della nostra collaborazione è stato sempre il rispetto reciproco: bisogna entrare prima in grande intimità col territorio, lasciarlo raccontare, esponendo la propria sensibilità alle sue suggestioni come farebbe una lastra fotografica. A quel punto si possono scoprire quelle che sono realmente le tematiche importanti da affrontare: tra queste vi è, ad esempio, la grande importanza che chi ha vissuto e sofferto qualunque montagna attribuisce alla toponomastica. Confrontarsi quindi con gli esperti del territorio, dal singolo pastore allo studioso appassionato del paese, diviene quindi una esigenza imprescindibile, ma le risposte arrivano solo se le domande sono poste nel modo giusto e soprattutto se la vita vissuta sul campo ci ha fornito sufficiente sensibilità e chiave di lettura per formularle. In questo senso ritengo che la ricerca sul campo e quella bibliografica e d’archivio siano inscindibili anche nello studio del paesaggio. Fare rete diviene quindi una necessità personale e culturale. In un mondo in cui abbiamo facilità di contattare e confrontarci con gli altri solo la paura del confronto, la supponenza e “l’invidia” impediscono di crescere come studiosi e come persone. Purtroppo molto spesso queste dinamiche, in realtà numericamente ridotte come le nostre, sono assai diffuse, portando a risultati qualitativamente e mentalmente ristretti. Io posso ritenermi fortunato, o più attento, per essermi meritato la fiducia e le confidenze di tante persone, alle quali affido viceversa la mia fiducia e tutti i risultati dei miei studi.
L’Europa è scossa da regressioni nazionaliste (quando non da movimenti neonazisti e razzisti), e vive contemporaneamente una crisi socioeconomica legata a pratiche di gestione del tempo e del lavoro, ma anche dei diritti, che sembrerebbero voler resettare le conquiste che tanto sangue e fatica sono costate. Nel caso della Sardegna, poi, gli ultimi dieci anni hanno segnato una forte ripresa dell’emigrazione e un blocco significativo del comparto produttivo (la disoccupazione reale si attesta attorno al 20%). Un tuo noto collega, Jared Diamond, ha recentemente pubblicato un saggio intitolato «Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali». Secondo te, a quali modelli di vita dovremmo ispirarci per mettere un freno a questa preoccupante deriva che, fra le altre cose, sta prendendo dall’ambiente più di quanto esso possa darci? La storia ci insegna purtroppo che, quando le persone stanno male, se la prendono paradossalmente con chi è più debole di loro. Sarebbe complicato e pretenzioso per me riassumere qui problematiche assai ampie come quelle esposte nella domanda, ma ritengo che le opinioni di Diamond, così come quelle di tantissimi altri, stiano portando nuovamente il focus sulla possibilità, per le comunità, di gestire in modo più sostenibile e consapevole i propri bisogni e riattivare circuiti virtuosi al loro interno. C’è sicuramente un problema di scala nelle economie mondiali, dato che sono collegate a geografie spaventosamente ampie, e la risoluzione di questo problema potrebbe probabilmente essere un passo verso un mondo più giusto. Basterebbe pensare, per ritornare alla Sardegna, al numero di terreni attualmente improduttivi o sottoposti alla speculazione edilizia o energetica ed alla sproporzione invece di derrate alimentari importate.