di Irene Gianeselli
intervista condivisa per gentile concessione di OUBLIETTE MAGAZINE http://oubliettemagazine.com/
«Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo […] il mondo dato in blocco, senza né un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita […]. Ogni volta l’inizio è quel momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore è l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare». Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988
Chitarrista classica e attrice, Stefania Masala nasce a Sassari dove giovanissima si diploma presso il conservatorio della sua città e si laurea presso l’università di Bologna in Drammaturgia Musicale per poi perfezionarsi all’Accademia Santa Cecilia di Brescia. Dal ’92 svolge un’intensa attività concertistica da solista e in formazioni da camera, dal duo all’ensemble, attività che la porta nel 2000 a esibirsi con il Maestro Uto Ughi nell’importante “Concerto per Roma” al Teatro Argentina. Dal 2000 collabora col Maestro Giorgio Albertazzi come chitarrista e attrice (negli spettacoli “El Duende”, “Il Sogno di Shakespeare risognato da Puck il malizioso”, “Suoni e Sonetti”, “Eneide”, “Vite di Bolognesi illustri”, “Filosofi alle primarie”, “Amleto e Altre storie”, “Puccini”, “Io ho quel che ho donato”, “Miti ed eroi”, “D’Annunzio chi?”, “Lezioni Americane”,”Il Mercante di Venezia”, “Memorie di Adriano”). Del 2005 è la partecipazione a “Il teatro in Italia” con Dario Foe Giorgio Albertazzi. Fra gli artisti con cui ha lavorato ricordiamo Anna Proclemer, Enrico Brignano, Giampiero Ingrassia, Amedeo Minghi, Daniele Salvo, Giancarlo Marinelli e Maurizio Scaparro. Varie inoltre le sue collaborazioni come aiuto regista di Antonio Calenda, Giorgio Albertazzi e Milly Carlucci, con la quale ha realizzato di recente il documentario in tre puntate per Rai 5 “Vita, Morte e Miracoli”. Attualmente è impegnata nell’allestimento di “Aulularia” di Plauto per la regia di Massimiliano Giovanetti.
Ti ringrazio per la tua disponibilità. Puoi raccontarci di come hai cominciato a fare teatro? Grazie a te per l’attenzione! Ho cominciato da adolescente, nella compagnia dell’Alliance Francaise di Sassari, la mia città: frequentavo il Liceo Linguistico e fare teatro in francese era una buona scusa per approfondire lo studio della lingua e per coltivare quella che già era una grande passione per me. Contemporaneamente studiavo al Conservatorio chitarra classica e, proprio il fatto di essere musicista, mi ha poi portata al teatro professionale: a 18 anni fui scelta dal Maestro Albertazzi per affiancarlo nel suo spettacolo”Il duende”, con testi e musiche di Garcia Lorca. Da quel momento non ho più lasciato il palcoscenico. All’inizio mi facevano dire solo poche battute, anche perché il mio accento sardo era molto evidente, soprattutto suonavo! Poi, dopo essermi diplomata alla Scuola TeatroAzione di Isabella Del Bianco e Cristiano Censi, hanno cominciato a scegliermi per ruoli più importanti e, posso dire con felicità, col tempo sono riuscita a fare delle mie passioni la mia professione: sono stata molto fortunata!
Fondamentale per te è stato l’incontro con Giorgio Albertazzi. Cosa significava fare teatro con il maestro? È una domanda molto difficile. Giorgio è stato il mio Maestro, il mio più intimo amico, il miglior complice che un attore possa augurarsi di incontrare in scena. Stare accanto a un gigante significa stare sempre un passetto indietro, avere molto rispetto per il suo genio e contemporaneamente essere pronto a reagire a ogni sua provocazione, a ogni stimolo. Da lui ho imparato tutto, non solo per quanto riguarda il teatro, ma anche nella vita: ogni spettacolo lo preparavamo come se fosse una “Laurea”, sviscerando ogni argomento fino all’ultimo dettaglio; sono stati anni di lunghe tournée, di litigate, momenti gioiosi e familiari che adesso mi mancano moltissimo. Fare teatro insieme è stato crescere, diventare adulta mantenendo la curiosità e la meraviglia di quando ero bambina, sia come attrice che come persona, ma soprattutto è stato la conquista di una libertà che non avrei pensato di poter raggiungere. Lui era generoso sul palco come nel privato e lasciava moltissimo spazio ai colleghi: in “Lezioni Americane” mi consentiva di improvvisare ogni sera, purché restassi sempre nel ruolo e nell’argomento, ovvio, e ci divertimmo moltissimo a fare quello spettacolo. Pensa, una delle ultime volte che ci siamo visti, mi disse che gli sarebbe piaciuto riprendere “Lezioni” perché non si era divertito mai tanto in vita sua! Sono stati anni felici, ecco, stimolanti, pieni di energia: mi sembra, con lui, di aver perso l’”età dell’oro” – come dice Adriano nelle Memorie della Yourcenar.
Il valore estremo della poesia è fondamentale nel teatro di Albertazzi. Qual è il momento di poesia che porti nel cuore? Eh, ce ne sono tantissimi! A furia di recitarli in teatro D’Annunzio e Dante sono diventati per me due “compagni” di vita: da poco mi sono trovata a dover fare una tac e stare ferma per un’ora mi sembrava sulle prime un’impresa impossibile; poi mi sono ricordata che Albertazzi, quando doveva fare qualche esame clinico complicato, per riuscire a stare fermo e anche per soffrire di meno, ripeteva mentalmente dei versi. Ebbene, l’ho fatto anch’io e, tra un canto e l’altro dell’Inferno, la Pioggia nel Pineto e l’Infinito, il tempo è volato e sono riuscita a stare fermissima! La poesia, se studiata col cuore oltre che col cervello, è capace di farci fare dei voli meravigliosi. È difficile indicare una poesia su tutte ma ne ho una che mi è molto cara, “Se vuoi amarmi” di Elizabeth Browning, ma non mi chiedere il perché! E se ti devo indicare una poesia detta da Albertazzi in maniera indimenticabile, dico “La sposa infedele” di Garcia Lorca: mai sentito niente di paragonabile alla sua interpretazione, come per tutto Dante, ovviamente.
Qual è l’eredità che Albertazzi ha lasciato ai giovani? Credo che l’eredità di Giorgio risieda soprattutto nella sua modernità e nella sua libertà espressiva: Albertazzi è la dimostrazione che la grande tecnica, unita all’applicazione e all’”indisciplina” dell’artista possa far raggiungere vette interpretative straordinarie. Certo, occorre avere talento e quello se non si ha non si può né comprare né imparare. Ma sono convinta che la grande lezione che ci arriva da lui sia “fingere di fingere”, ovvero quel modo tutto speciale che aveva di rendere “sue le parole di altri”, di far passare emozioni molto intime e personali di uomo attraverso la “finzione scenica”. Ho tante volte sentito dire, anche da colleghi illustri, “Albertazzi non recita più” – intendendo il recitare come il “citare” parole di altri e quindi già sentite: ecco, credo che noi attori dovremmo cercare di imparare a riscoprire ogni volta la parola come se stesse sgorgando dal cervello proprio nel momento in cui la si dice. È questo a mio parere il segreto del “non recitare” che è quindi “non fingere”.
Leggerezza. Cosa significa per te? Per me il concetto di “leggerezza” non è scindibile dalla conoscenza e dalla pratica delle “Lezioni Americane” di Calvino: condivido in pieno la sua idea secondo cui non la piuma è leggera, poiché è inerte, ma l’uccello che si libra nell’aria. E penso anche che “leggerezza” di questi tempi significhi molto per la società in cui viviamo: siamo continuamente invitati alla serietà, per il grande equivoco che “leggerezza” sarebbe uguale a “superficialità”; niente di più falso secondo me. Sono convinta che se usassimo una “leggerezza calviniana” nell’affrontare la vita, il mondo sarebbe meglio di come è. Mi sembra calzante l’ultima immagine delle nostre Lezioni: “l’agile salto di un poeta-filosofo, Cavalcanti, che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante appartiene al regno dei morti, come un cimitero di automobili arrugginite”. La poesia, per esempio, è spesso leggerezza: il problema è che a scuola la insegnano come una cosa pesante e opaca!
Come valuti l’attuale situazione del teatro italiano? Sono almeno duemila anni che si dice che il Teatro è in crisi: lo era ai tempi dei Greci, dei Romani, nel Medioevo (meglio tacere), e anche ai tempi di Moliere e Goldoni. Bene, il Teatro è in crisi anche oggi! Eppure è sempre andato avanti e continuerà a farlo. È chiaro che fare Teatro oggi è più difficile di quanto lo fosse venti ma anche dieci anni fa: la tassazione è altissima e i finanziamenti pubblici non bastano, anche perché spesso premiano un cosiddetto “teatro di ricerca” che poi viene visto da quattro spettatori! Io credo che si possa fare grande teatro senza scadere nel “televisivo” e senza necessariamente “fare gli intellettuali incompresi”: certo, c’è bisogno dell’aiuto dello Stato, che dovrebbe detassare le Compagnie, lasciare loro l’intero incasso e provvedere alla parte contributiva (almeno nel mio Stato ideale!). La forma “assistenziale”, secondo cui lo Stato versa denari secondo una supposta “meritocrazia progettuale” mi sembra controproducente e in un certo senso mi fa anche sorridere. Sì, perché chi, in un Ministero, può stabilire il “valore artistico” di una proposta teatrale se non l’ha vista prima? Perché si valuta il “nome” che la propone o la storia della Produzione? Se così fosse potrebbero risultare escluse Compagnie sconosciute eppure validissime. No, il “sistema” così non può funzionare. E non può più funzionare neanche il fatto che dalla mattina alla sera uno dica “faccio l’attore” e glielo facciano fare perché magari viene da un reality che ha fatto un record di ascolti: l’errore qui però sta nel manico! Dovrebbero essere le Produzioni, in primis, a esigere una grande professionalità e preparazione all’attore, e poi il pubblico stesso. Ricordiamoci che il Teatro altro non è se non il rapporto tra attore e pubblico; poi viene tutto il resto. Se il pubblico viene tradito, a teatro non va più. E così siamo tutti sconfitti. Ecco, io credo che troppe volte il pubblico venga preso in giro da noi teatranti, che gli proponiamo cose “comode”, fatte alla “bell’e meglio” ma senza una reale esigenza di comunicare e di divertire. Perché il teatro è pur sempre “divertimento” – ovvero divergere dal solito, distrarre l’animo – ma occorre farlo con coscienza, perché lo spettatore sa riconoscere quando l’attore finge – anche quando magari finge benissimo – e sa quando una cosa che gli si presenta non è “sincera”, non è “leggera”, perché il suo cuore rimane vuoto. Credo che per uscire dalla “crisi” dobbiamo ricostruire questo rapporto dialettico tra palco e platea: noi attori essere più “onesti” e il pubblico meno “passivo”.
Il teatro non si ferma mai, progetti futuri? Stiamo per cominciare le prove di “Aulularia” di Plauto con Edoardo Siravo per la regia di Massimiliano Giovanetti. La novità è che lo spettacolo verrà recitato in latino, ci saranno molte musiche cantate dal vivo e cercheremo di far ridere il pubblico proprio come ridevano i Romani antichi a quelle battute e gag. Cercheremo di essere sì rigorosi ma molto divertenti. Saremo in scena a Roma a marzo e prima in tournée in tutta Italia. Venite?
http://oubliettemagazine.com/2016/09/04/intervista-di-irene-gianeselli-allattrice-stefania-masala-il-maestro-la-poesia-e-la-leggerezza/