di Maria Tiziana Putzolu
La madre era stata chiamata a scuola, una mattina, dalla Maestra. Era una fredda mattina d’inverno. Bionda, cotonata e zitella. Garbata ed austera. Con un piccolo difetto fisico ad una mano, lieve traccia ricordo di una poliomielite che lei camuffava abilmente allungando le maniche della giacchetta e sfregandosi continuamente le mani l’un l’altra, così che nessuno si accorgeva. Non le mancava mai un leggero filo di perle. Usava un profumo che solo le maestre dovevano conoscere. Sicuramente si chiamava Profumo di Maestra.
La Maestra, quell’anno, si era alla quarta elementare, aveva deciso che oltre alle poesie del sussidiario si sarebbe studiata a memoria anche una poesia in sardo. Lo aveva annunciato fin dal primo giorno di scuola, e sembrava proprio si rivolgesse a lei, la bambina, mentre lo diceva.
Sì, in sardo. Disse. Tutti gli alunni l’avevano considerata quasi una bizzarria. Ma la Maestra diceva che la poesia era tanto bella. Per la maggior parte dei bambini era stata quasi una bella notizia. Per qualcuno, invece, il compito era difficile, perché il sardo non lo parlava proprio.
Signora, le disse senza mezze misure la Maestra. Sua figlia si rifiuta di ripetere la poesia che ho assegnato. Di un poeta sardo vivente! La madre la guardava sbigottita. Deferente, cercava di capire. E forse anche il perché di una poesia in sardo. La bambina abbassava lo sguardo stretta tra le due donne che la guardavano severe.
Non ne vuole proprio sapere. Sua figlia la poesia la sa, vero che la sai? disse rivolta alla scolara, estendendo la voce stizzita e suadente verso un tono più alto. Ne sono sicura che la sai. Ma non c’è verso… La madre tentò una mediazione. Forse perché è in sardo, e non lo sa parlare, la bambina. Ma la Maestra fu inflessibile. Deve ripeterla, come gli altri. L’ha ripetuta anche la figlia del maresciallo, che non è di qua. Ed è stata anche brava. Era chiaro che nutriva per la figlia del maresciallo una notevole preferenza. La bambina lo sapeva.
La madre si congedò dalla Maestra con la promessa che avrebbe fatto di tutto per convincere la bambina. A casa dovette dedicare un po’ di tempo a quella questione. Su, dai, insieme. Pro unu pizzinnu zegu, disse sillabando, lentamente, scandendo le lettere. Almeno il titolo, dai, su, proviamo. No. No e no diceva la bambina. Non posso ripeterla in italiano?
No, le rispondeva la madre. Stupita e perplessa del fatto che a scuola si dovesse per forza parlare il sardo. Lei, che aveva elevato a punto d’onore l’affrancarsi da quel modo di parlare antiquato. Rimmel, eye liner, gonne appena sopra il ginocchio, qualche sigaretta. Non capiva e neppure condivideva. Ma se la Maestra aveva dato quel compito, lo doveva eseguire.
Quando la bambina emise, flebile, il titolo della poesia, dopo interminabili ed estenuanti insistenze, fu per la madre un Grande Sollievo. Ora, pensò, bisognava fargliela ripetere di fronte ad altre persone.
L’imboscata gliela tese di fronte ad un caminetto, verso l’imbrunire. L’ora adatta per le imboscate. Venite, sentite, la bambina ora vi recita la poesia in sardo. Su, iniziamo, disse un po’ platealmente, allargando le braccia. I parenti erano certamente allertati sulla questione, era chiaro. Si riunirono subito.
La bambina indossava uno scamiciato di lana secca, arancione con i bordi blu. Mi graffia il collo, diceva alla madre. Quello scamiciato non le piaceva proprio. Fu un sollievo, l’anno dopo, quando all’arrivo della stagione invernale, constatò che non ci entrava più in quello scamiciato arancione e blu. Era ferma, in piedi, con la testa bassa. Gli occhi al pavimento. Scuoteva la testa. No e poi no. Sembrava un mulo. Dai. Dai. Dissero tutti. Tanto la incalzarono che pensò che recitare qualche pezzo di quella poesia sarebbe stato meglio che continuare a subire quel supplizio. Iniziò con il titolo. E lo spettacolo ebbe inizio.
Pro unu pizzinnu zegu, recitò. Deglutì. Si rischiarò la gola. Prese tempo.
Mamma, itte fizzu c’as connottu.
La nonna si aggiustò sulla sedia e si portò le braccia al petto. Le zie si disposero in cerchio. La bambina aveva le mani dietro la schiena, per darsi un po’ di coraggio. Continuava a chiedersi perché dovesse recitare una poesia in quella lingua che non era la sua? Coraggio, si disse, passerà. Proseguì.
Forzis troppu t’istimo ca non t’ido.
Cando t’abbrazzo, ch’a s’istitnu obbido
De su coro tou cumprendo su motu.
Che brava! Dissero tutti, accennando ad un applauso. Ma la bambina sentiva di soffocare, di subire un’offesa. Si vergognava a morte. Voleva urlare. Dire a tutti di andarsene da lì. Di lasciarla in pace. Ma quelle no. Erano lì ad assistere allo spettacolo. Per loro era il momento della Grande Commozione. Le lacrime conferivano una notevole tragicità alla recita.
Ssss, sussurrò la madre, che adesso c’è la parte finale. La nonna prese un fazzoletto bianco dalla tasca del cardigan di lana color verdastro un po’ abbondante sui lati. Il nonno raddrizzò la schiena sulla sedia.
Solu a tie mamma so devotu
Ca in brazzos tuos mi drommo e m’acchido
Un velo di commozione iniziò a trasparire negli occhi di tutti che ascoltavano compìti. La bambina andò avanti. Iniziava ad intravedere la fine imminente di quella tragedia verso la fine dei versi.
O Deus meu, dae s’alta dimora (…)
Dami sa vista nessi pro un’ora pro lu ider su visu a mamma mia.
Poi tornami zegu e so cuntentu
A quel punto lacrime di rabbia le scesero copiose sulle guance e lacrime sgorgavano in contemporanea dagli occhi di tutti. Lacrime diverse, lacrime di versi. La bambina si asciugò le lacrime che spazzavano definitivamente la tensione accumulata. Bravissima! dissero tutti. Ma lei sentiva bruciare dentro di sé il rogo per l’offesa subita. Era come se le avessero cavato un dente, strappato i capelli, levato i vestiti di dosso.
La nonna chiese un bis. Fu a quel punto che la bambina si ribellò con forza. Ormai l’aveva ripetuta! No. Disse. Basta. Lo spettacolo era finito. Ora si trattava di ripetere la poesia a scuola. Ebbe a ripetere la poesia come un’amara medicina, sempre. La ripeté più volte, a scuola, e tante volte e con lo stesso sdegnato disgusto. Che forse traspariva dai suoi occhi che cercavano di rimanere impassibili per non Dare Soddisfazione.
Per molto tempo, ogni volta che si recava a casa dei nonni, veniva sottoposta al supplizio della poesia del piccolo cieco. Alla fine di un pranzo, a merenda, per le feste comandate. Lei, che arrendevole non era per indole, qualche volta le accontentava e gliela recitava.
Non capì mai il perché riuscisse sempre a far piangere di commozione nonna e zie, a volte anche vicine di casa, quando la poesia giungeva a Poi torrami zegu e so cuntentu. A quel punto le lacrime scorrevano a fiumi. Il perché di quella Grande Commozione, per quella poesia che a lei sembrava tanto orrida, alla recita della quale piano piano assistette con accorata partecipazione un pubblico sempre più vasto nella casa, non lo comprese, in effetti, mai.
Ps: La poesia “Lamentu de su pizzinnu zegu” è del poeta bolotanese Costantino Longu.
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