di Mauro Pili
A Capo Frasca non fa mai buio. Lo cerchi e non lo trovi. Irraggiamento postumo. Ne scorgi i tratti dovunque ti giri. Altopiano. La luna è alta. Un riflettore che si sposta a passi felpati nell’immaginario.
Dove fosse Capo Frasca lo avevo capito da ragazzino, andando a trovare i miei zii materni nella vecchia miniera di Ingurtosu. Luoghi impervi e segreti a cavallo tra le fiabe e le sceneggiature dei grandi best seller. Montagne bucate. Per scavare galena e blenda. Piombo, zinco e argento.
E poi discariche infinite. Scarti di lavorazione disseminati come paesaggi lunari calati in terra di Sardegna.
Capo Frasca è lì, crocevia tra la Costa Verde e la civiltà mineraria. Comune di Arbus.
La tecnologia mi ha riversato sullo smartphone immagini cruente, fumo denso e alto che si leva dal cuore del poligono di tiro.
Per essere più chiari dove la scena di Pearl Harbor è girata in sequenza continua. Bombardamenti via aria, verso terra e verso mare. Senza tregua, aerei che si gettano a capofitto per mirare e dilaniare con aggeggi da mille chili le rocce e le pianure della costa occidentale della Sardegna.
Quel pomeriggio l’estate scorre lenta sotto l’ombrellone nelle maestose spiagge di Gutturu ‘e Flumini e dintorni.
Estate o non estate a Capo Frasca si spara. Anzi, si bombarda. A tutte le ore. I jet tedeschi scaricano di tutto. Sino a quando il bersaglio è una roccia più dura del solito. L’impatto è fuoco puro. Tra palme nane, rarissime, e vegetazione arsa sino a quel momento solo dal sole cocente. La scintilla cade nel pagliaio. Fuoco sulla benzina della macchia mediterranea. Inutile nascondere. Le immagini dopo pochi secondi sono in rete. Ogni tentativo maldestro di censurare si scontra con il counter del social prescelto. In pochi minuti migliaia di visualizzazioni. Prende fuoco Capo Frasca.
Nessuno interviene. Non può accedere nessuno. Gli elicotteri sono lontani mille miglia. Il comando tace. Per loro normale addestramento. Brucia tutto.
Alle 21.00 un dormiente presidente della regione viene esortato a chiedere conto di quanto successo.
Comunicato d’ufficio giusto per rompere il silenzio divenuto imbarazzante come un rock and roll all’Angelus.
Capo Frasca, oasi ambientale e faunistica censita tra i siti di massima protezione ambientale, devastata a colpi di missili aria terra ora è brace e cenere.
Non si capisce cosa sia successo tra Stato e Regione. Ma di certo, senza emulare Sigonella, il corpo Forestale della regione si presenta sul posto. Lo scontro non è titanico, ma poco ci manca. La base è inviolabile, ma il fuoco avanza.
Alla fine i generali sono spalle al muro, costretti alla resa. Entrate, dispongono alla sbarra del checkpoint.
Non se ne saprà niente.
L’indomani la mia sveglia è con l’alba. Quando decido di raggiungere quella porzione di territorio ignoro dove sia l’inizio e la fine. So solo che devo andare. Mi ripeto: bisogna impedire in ogni modo che le autobotti di cloroformio vengano dispiegate ovunque, pur di nascondere l’ennesimo agguato alla terra di Sardegna.
Incendi e devastazione di Stato da censurare in ogni modo, a partire dalla manipolazione dei luoghi e dei fatti.
Conosco a memoria l’antico vademecum militare: smentire, smentire, smentire. Alla pari del marito colto nel letto concubino. In accademia, prima di insegnarti strategia militare, ti riempiono la testa di regole auree per mistificare.
Come quel giorno. Faccio giusto in tempo a preannunciare via facebook la mia partenza che dieci minuti dopo il comandante della base convoca in fretta e furia i giornalisti.
Come se avessero un missile, dovevano farsi trovare alle 10.30 a Capo Frasca. Lui, il comandante dal cognome improprio, Sardone, non ci mette due volte a solcare le pianure del campidano, traguardando il Monte Linas e arrivando, dopo 25 minuti di elicottero, dentro il poligono.
Tuta da pilota provetto. Sceneggiata organizzata come in uno sketch da film comico. Si sarà detto il comandante, teleguidato dal gabinetto del Ministro: mi carico su una jeep un pò di giornalisti, faccio vedere quattro stoppie, due petardi e il gioco è fatto.
Peccato! Tra la sceneggiatura di Stato e la manipolazione della notizia Sardone si trova a gestire un inconveniente.
Ero arrivato sul posto prima di lui e prima dei giornalisti. Negare la visita ad un deputato e consentire quella di un gruppo di inviati non era previsto dal manuale.
La giornata si fa tesa. La mattina scorre al telefono. Prima con il ministro che ordina: Pili, il deputato non può entrare. Deve fare richiesta e dopo 24 ore potrò accedere. Lo scontro è duro.
Quando il Sardone di turno viene a comunicarmi la lieta novella capisce come un furetto che non tira aria.
Da qui non me ne vado, gli dico guardandolo fisso negli occhi. Lei deve lasciare immediatamente il poligono sino a quando non sarà autorizzato, ribadisce. Chiami chi vuole, replico. Per farmi andare via di qui servono le manette, gli suggerisco.
Passano minuti interminabili. La facente funzioni di ministro, la compagna Pinotti, chiede l’intervento dei carabinieri. Portatelo fuori dalla base, intima il comandante in capo.
Il povero comandante dei carabinieri avrebbe preferito mettersi in malattia una settimana prima.
Finisce tra l’incudine e martello del ministero della difesa e quello dell’interno.
Pinotti chiede l’allontanamento, l’interno ribadisce: siete matti, non potete allontanarlo.
Nel frattempo per distogliere gli occhi indiscreti di giornalisti e cameraman viene organizzata la gita scolastica sui presunti luoghi del barbecue con quattro petardi sparsi per l’occasione.
Quattro immagini e il gioco è fatto.
E in effetti le immagini sortiscono l’effetto sperato. Bombette da capodanno, quattro orticelli bruciacchiati.
Nel frattempo la mediazione va a farsi benedire. Non mi muovo. Dovrà avere pazienza il comandante.
La divina provvidenza mi regala l’auto parcheggiata dentro la base. Centro fondamentale di ricarica per batterie. Base d’appoggio per quella lunga notte dentro il poligono di Capo Frasca.
Non mi offrono nemmeno un sorso d’acqua. Devi morire.
Per fortuna il tam tam corre veloce. Arriva di tutto, caffè prima di tutto.
Il sole cala, la luna si leva.
Capo Frasca non si spegne. Silenzio rumoroso, rotto solo da un anemometro senza grasso. Cigolio regolare. Calma piatta. Fortunatamente.
Lo skyline è un tratto di righello sull’orizzonte. Perfetto. Rotto solo dall’incedere di possenti quadrupedi dalla foggia inedita, quasi fossero in arrivo anticipato le slitte di natale. Mandrie imponenti di daini, richiamati dal rigoglio di una pompa d’acqua. Moltiplicatisi a centinaia dentro l’oasi di Capo Frasca, ora la dominano in lungo e in largo.
Spariscono all’alba. Al comparire del comandante Sardone. Trova solo me, ad attenderlo. Sono le 9.30, manca un’ora alle fatidiche 24 ore. Capisce che ormai non c’è scampo. Visita ispettiva deve essere e sarà.
La jeep è scortata. Missione area incendio. Si scende dopo un camel trophy tra i labirinti dei daini. Parcheggio di stato. Quello prestabilito. Lo stesso per la passeggiata dei giornalisti.
Sperano di chiudere la partita con un giro facile.
Scendo, scruto la messa in scena. Li guardo e vado avanti. Molto avanti.
La voce che mi insegue vorrebbe redarguirmi. Fermarmi. Ovviamente non ci penso nemmeno per un istante. Cammino, cammino. Con l’ipad acceso. Con quel forellino in megapixell che non osano vietarmi. Come avrebbero, forse, voluto fare.
Esausti. Come dire, veda quello che deve vedere, ma se ne vada quanto prima, che non ne possiamo più.
Avrebbero voluto.
La scena che si presenta un chilometro più avanti è da apocalisse. Le fiamme hanno raso al suolo tutto. E’ rimasta solo cenere, spessa come la neve di fine dicembre.
L’oasi protetta da tutti i trattati internazionali è arata. La semina è aerea. I vomeri sono bombe/missile da mille kg. Conficcati nella terra arsa dal fuoco, come alberi secolari. Solo che le radici sono d’acciaio e cemento, forse.
Il comandante si rivolge al suo secondo: come mai queste sono qui? Domanda tratta dal manualetto, capitolo imbarazzo, comma vergogna.
Passano le ore. Le immagini si fanno imbarazzanti. Spunta di tutto. Aerei, serbatoi, missili di ogni stazza.
E’ mortificato, Sardone. Capisce che si tratta dell’inizio della fine. Non ha nemmeno il tempo di vedere le sigle dei tg che mi preannuncia: tanto io devo andar via da qui. Forse questo anticiperà il tutto. Lui ora, in effetti, pilota un grigio ufficio dentro i palazzi di stato.
A Capo Frasca nel frattempo sono rimasti i daini e sono arrivati gli arruffa denari di stato.
Quelli delle bonifiche. Mi hanno riempito la testa di rassicurazioni. Qui niente Torio, niente Uranio. Qui spariamo pulito. Poi di punto in bianco un appaltino da un milione e mezzo di euro per raschiare qualche ettaro di terra dentro la base si moltiplica per 20. Amianto. Amianto ovunque.
Non si sa giunto come, e se, soprattutto, sia mai giunto. Un dato è certo, ora quelle 10.000 tonnellate di terra devono essere bonificate. La Nato controlla l’operazione. E guarda caso a dedicarsi al movimento terra è la stessa sofisticatissima fabbrica dei missili. Codice secretato. Sigilli di stato per bonificare a trattativa diretta e privata.
E’ iniziato il nuovo business. Quello che distrugge siti archeologici, che cancella vegetazione e scova amianto ovunque, sostanze e quantità che nemmeno loro sanno come ci siano arrivate.
Sperano che in quel proscenio violato cali la notte. Ignorano che a Capo Frasca il buio non è di casa.
iad’a deppi oscurigai asubr’e tottu s’italiga… A INNANTIS, FINTZAS A S’INDIPENDENTZIA!!