di Omar Onnis
Aleggia più puzza del solito sulla Sardegna in questo periodo. Non è la puzza delle ciminiere o degli ordigni esplosi in qualche poligono militare (che non mancano mai). È la puzza di cattive intenzioni, puzza di affari sporchi, puzza di basse manipolazioni dell’opinione pubblica.
Le notizie sul malaffare diffuso sono ormai pura routine. I disegni di svendita delle nostre risorse e del territorio si rincorrono, come se non ci fosse nulla di strano. Gli appetiti dei prenditori di turno si fanno più espliciti e più sfacciati. Il disegno neo-coloniale più evidente.
È come se la nostra miserabile classe dominante sentisse il pericolo di perdere il controllo della situazione, sia dal lato dei suoi mandanti e datori di lavoro, sia da quello del consenso o almeno dell’acquiescenza sociale. Così, cerca di consolidare la propria posizione in modo frenetico, quasi compulsivo.
Tutto sembra fatto o favorito o fintamente osteggiato solo per garantire la sopravvivenza della nostra sottomissione. Dalla questione trasporti (compresa la cessione ai privati dell’aeroporto di Alghero, dopo averne lasciato indebolire potenzialità, traffico e fatturato), alle nuove manovre di land grabbing (vedi affare fam. Cualbu vs. Flumini Mannu,), alla pessima gestione del problema degli incendi (puntare tutto sulla risposta all’emergenza indebolendo prevenzione e strutture di cura e controllo non sembra proprio la scelta più intelligente), alla questione migranti.
Ecco su questa soprattutto vorrei spendere qualche parola, perché mi sembra particolarmente significativa sul momento che stiamo attraversando.
La Sardegna, dopo molti secoli in cui era stata prevalentemente terra di immigrazione (sia pure esigua e non di massa), dagli anni Sessanta del secolo scorso (con qualche prodromo nei decenni precedenti) è diventata terra di emigrazione (questa sì di massa).
Un’emigrazione subita spesso con fatalismo e rassegnazione, come se non ci fosse alcuna alternativa, complici alcuni micidiali dispositivi di controllo sociale e politico. Si realizzava la Rinascita a base di industrie obsolete (lo erano già negli anni Sessanta di cui sopra) e al contempo si causava direttamente l’abbandono dell’isola da parte di migliaia di famiglie, quasi sempre giovani e in piena età attiva, giustificando il tutto a base di mitologie velenose.
Sono gli stessi anni in cui si attua la massiccia cessione di territorio alle cosiddette servitù militari, in cui la Sardegna comincia a far gola come base strategica, in termini geopolitici, e come territorio buono per qualsiasi esperimento socio-economico, specie se prevede lauti profitti a fronte di investimenti esigui o spesso fatti con denaro pubblico.
Il mostro neo-coloniale sardo da allora di nutre di emigrazione, impoverimento indotto, abbandono del territorio e dei centri abitati, deprivazione culturale, manipolazione profonda dell’opinione pubblica e dell’immaginario collettivo, clientelismo, terziarizzazione drogata del sistema produttivo (con prevalenza dei redditi da lavoro dipendente pubblico), corruzione sistemica.
Finiti i soldi della Rinascita (diciamo, da subito dopo la caduta del Muro di Berlino), la classe politica sarda si è dovuta barcamenare tra fondi europei (mal usati e mal indirizzati) e questione entrate (lasciata languire, affrontata da dilettanti o peggio e infine malissimo risolta).
Questa delicata fase presenta i connotati di una complessa transizione, da governare tenendone fuori qualsiasi entità sociale e/o politica estranea alla consorteria di faccendieri, arrendadores e podatari che compone la nostra classe “dirigente”.
Il che significa fare in modo di escludere a priori qualsiasi rappresentanza istituzionale per istanze sociali e politiche libere, non-dipendenti (e dunque non-dipendentiste, in senso ampio), diverse da quelle vincolate a subalternità e sottosviluppo. Significa escludere più di metà dell’elettorato da qualsiasi voce in capitolo. Significa escludere le comunità locali. Significa escludere la forze produttive più sane.
Naturalmente fare tutto ciò per un tempo sufficientemente lungo e in presenza di una reazione socio-culturale e politica già in atto (benché non strutturata) richiede uno sforzo notevole, che solo un apparato egemonico robusto può permettersi.
L’apparato egemonico sardo fa acqua da tutte le parti. Chi lo gestisce e lo maneggia non sembra esattamente un genio del male. Diciamo che siamo in presenza di qualche mediocre dotato di scarsissimo senso etico, di una certa furbizia da ladro di autoradio, ma con appoggi esterni ancora molto forti.
Cosa c’entra tutto questo con la questione migranti? Io temo che c’entri molto. Perseguire scientemente l’impoverimento e lo spopolamento dell’isola è un conto, farlo impunemente è un altro. Servono diversivi, ora che non bastano più i mezzi ordinari.
Spostare l’attenzione dei sardi dai problemi concreti e dalle loro cause a un capro espiatorio di comodo è tutto sommato una trovata semplice ma efficace. Usare all’uopo la retorica dell’invasione degli “extracomunitari” è la cosa più elementare. Del resto i sardi sono esposti da tempo ai dispositivi che formano la cultura di massa italiana, specialmente la televisione.
Così le scempiaggini razziste che ammorbano il discorso pubblico italiano si riverberano meccanicamente nell’armamentario mentale dei cittadini sardi, occupandolo con stereotipi, cornici concettuali, parole chiave e elementi mitologici che hanno pochissimo a che fare con la storia e la realtà attuale della Sardegna, ma fanno presa facilmente, innestandosi come un parassita in un organismo preventivamente svuotato di anticorpi.
La retorica razzista alligna nei social media, specchio abbastanza fedele (una mappa 1:1, diciamo) delle nostre nozioni e delle nostre relazioni, ma è alimentata ad arte e propalata abilmente dai mass media principali e da esponenti politici opportunamente dislocati. Il discorso dell’ostilità verso i più poveri e “quelli che hanno un colore di pelle diverso” si diffonde facilmente, tanto più facilmente quanto più sono deboli i filtri culturali e la consapevolezza politica.
Le uscite mediatiche a favore di un ripopolamento delle nostre comunità con i migranti, fatte da importanti esponenti politici (a memoria mi vengono in mente il presidente del Consiglio regionale e l’assessore regionale alla sanità) sono solo apparentemente improvvide e ingiustificate. Rientrano bene invece nel disegno di sollecitazione dei peggiori istinti delle masse. Che gli autori di tali uscite ne siano consapevoli o no.
La cosa è tanto più assurda, in quanto le centinaia di migranti dirottati verso la Sardegna non hanno, se non in minima parte, mai avuto l’isola come propria destinazione. Essere deportati in Sardegna è per loro una sorta di ingiustificato e violento confino.
A questo si aggiunge la disorganizzazione dimostrata dalle autorità competenti, con la patata bollente scaricata su entità e soggetti “a valle”, che non possono sostituirsi nemmeno volendo a chi dovrebbe gestire la situazione con mezzi e cognizione adeguati. Parlo dei sindaci, delle esigue e sottofinanziate strutture dell’accoglienza, delle cooperative, delle associazioni di volontariato, dei gestori di attività ricettive.
Così, una situazione tutt’altro che emergenziale viene trasformata in una faccenda problematica e socialmente esplosiva. Poche migliaia di migranti consenzienti potrebbero essere accolti e sistemati dignitosamente, in Sardegna, senza tanti sforzi, data l’abbondanza di spazio, compresi i tanti immobili pubblici inutilizzati – a cominciare da quelli del demanio militare dismessi e mai consegnati alla Regione e ai comuni interessati – e la presenza di organizzazioni in grado di occuparsene.
Invece assistiamo a un quotidiano rilascio di bollettini allarmistici e al crescere di episodi di razzismo e xenofobia. Razzismo e xenofobia alquanto inediti, dalle nostre parti, ma che non possiamo pensare ci siano congenitamente estranei: siamo esseri umani, niente di umano ci è estraneo. Nemmeno gli istinti più torbidi. Specie se opportunamente sollecitati.
Così non solo si arricchisce la casistica di fatti di cronaca a sfondo razzista, ma quel che è peggio tali fatti non incorrono più nello stigma negativo dei più, bensì cominciano ad essere giustificati da tanti, troppi cittadini, magari anche tra quelli che avrebbero tanto da recriminare ma non sanno bene con chi prendersela.
A ciò si aggiunge un ulteriore problema di tipo politico. L’atteggiamento xenofobo sta rapidamente prendendo piede anche in ambiti politici fin qui immuni da tale peste. Penso in particolare al movimento indipendentista.
Troppi rimestatori di escrementi ci stanno sguazzando e in troppi ci si fa stordire dai miasmi. Troppo facile debordare da un nazionalismo magari schematico e ingenuo alla xenofobia conclamata. E da qui a inquinare l’intero discorso della nostra autodeterminazione ho paura che il passo sia più breve di quanto immaginiamo. E questo sarebbe un altro ottimo risultato per chi ha interesse a mantenere e consolidare lo status quo di dipendenza e soggezione dell’isola.
E il cerchio si chiude. L’esplicito disegno neo-coloniale in atto si serve con successo (oggettivamente, se non deliberatamente) anche di questo mezzo disgustoso pur di realizzarsi. Invito caldamente tutti a rifletterci su, e specialmente coloro che si si vantano di battersi per una Sardegna più libera, più dignitosa e più prospera e al contempo si lasciano irretire dai discorsi discriminatori, magari nascondendosi dietro la patetica formula del “non sono razzista, ma… “.