di Daniele Madau
A novembre scorso, in occasione del conferimento del premio “Per amore di una città”, il sindaco di Nuoro Andrea Soddu ha parlato della “figura dominante di Bachisio Bandinu nella cultura sarda”. Affermazione innegabile; la figura è intessuta di studi, azione, narrazione, amore:di una terra ricca di passato e di detriti del passato che ancora non sono eredità di un futuro di speranza, né, spesso, di un presente di vita autentica. Come nelle varie descrizioni classiche sui flagelli della peste (possiamo riferirci a Boccaccio per Firenze o Manzoni per Milano) assistiamo con senso d’impotenza allo spopolamento della Sardegna, alla depauperazione delle sue risorse umane, alla perdita di lavoro; in attesa di una pioggia liberatrice che individuiamo ancora nel turismo o nell’intuizione di una nuova economia che per ora non possiede tutte le risposte. Vediamo, così, quotidianamente, quanti giovani si sentono figli di una generazione che ha come orizzonte il mondo, quale promessa di vera realizzazione. La costruzione del futuro ancora ci sfugge, ma anche il solo parlare di Sardegna, ancora una volta, ci riporta sulla via della consapevolezza.
L’ultimo libro tratta insieme tematiche davvero complesse e cruciali (come la lingua, le servitù militari, l’idea di turismo) che, anche singolarmente, sarebbe arduo trattare. Accomunarle, però, significa trovare un filo conduttore: potrebbe essere quello dell’ignoranza? Tutto il libro gioca sul binomio di opposti conoscenza – ignoranza. Quando, negli anni cinquanta del secolo scorso, per il rilancio dell’economia sarda dovevamo scegliere tra l’industrializzazione e la valorizzazione del comparto agro-pastorale, all’inizio la scelta era ricaduta su questa seconda opzione. Per pressioni arrivate da Roma, tuttavia, si optò alla fine per l’industrializzazione. Ora noi non possiamo dire se, con più cognizione di causa, la scelta sarebbe potuta essere anche vincente: quello che sappiamo è che non abbiamo riflettuto sugli effetti che questa industrializzazione avrebbe potuto avere. Qui parliamo di mancata conoscenza delle ricadute, in vari ambiti: pensiamo solo all’inquinamento e quanto costerà sanare certi territori; per alcuni, anzi, sappiamo che non li si potrà mai risanare completamente, come nel caso di Porto Torres.
Come provocazione, propongo questa riflessione: questa non-conoscenza potrebbe derivare dal fatto che non esiste un’identità sarda come riflessione su di sé, sul proprio futuro e sul proprio bene? Accettando questo, potremmo pensare che Roma si sia comportata in Sardegna come in altre zone d’Italia (Napoli con Bagnoli, Taranto, la Sicilia), trovando via libera per la mancanza di un popolo non autoconsapevole. Concordo sul fatto che non esiste un’identità sarda che si traduce nel fare, nell’azione. Non possiamo paragonarci a quanto è presente a esempio, in termini di capacità d’impresa, nel nord-est italiano: ricordo che il Veneto, negli anni ’50, era una zona depressa, simile alla nostra anche per la presenza della malaria. Quello che è successo dopo, come sviluppo industriale, fu eccezionale, tanto che divenne oggetto di studio e imitazione da parte di vari paese europei. Noi in questo non esistiamo mentre, tenendo presente il rischio che le generalizzazioni comportano, possiamo parlare di una struttura propria dei sardi nel loro modo di pensare che si manifesta in alcune caratteristiche della nostra lingua. Come nel caso dell’antifrasi – dell’affermare negando o del negare affermando -, onnipresente nella parlata dei sardi, che si può spiegare attraverso i meccanismi della diffidenza;o anche della pronunciata tendenza a privilegiare i modi verbali del condizionale e il congiuntivo, che sono per definizione i modi dell’ipoteticità, del dubbio. Per esempio, un sardo non direbbe custu est unuliberuma custudiat essere unuliberu (cioè, non dice mai “questo è un libro”, ma sempre “questo dovrebbe essere un libro”): questa modalità dimostra una distanza dal reale, reale che ci è stato tolto in quanto non ne siamo stati attori principali, e che è visto solo attraverso la possibilità e l’ipoteticità. Aggiungiamo a questo, per completare il quadro, la tendenza a non rompere mai un equilibrio comunitario atavico, con la conseguente ritrosia, se non aperta avversione, di chi provava a eccellere e l’ulteriore conseguenza del privilegiare il livellamento verso il basso della società di appartenenza.
In un suo libro precedente (“Lettera a un giovane sardo”), parla di identità come “spirito critico”; per me questa definizione è molto bella, tuttavia, forse, la percezione che i giovani hanno dell’identità non è questa, non trova? Ho presentato quel libro in varie scuole e, ogni volta che parlavo di appartenenza, mi sentivo rispondere dagli studenti che loro si sentivano cittadini del mondo. Approfondendo il concetto, che mi affascinava, tuttavia percepivo come il loro essere cittadini del mondo non si riferiva al riconoscersi simili nella capacità intellettive o negli ambiti culturali, cosa che mi sarei aspettato da studenti anche prossimi alla maturità, ma in quanto consumatori di un prodotto commerciale che in tutto il mondo veniva usato. Ho in mente principalmente un ragazzo del Sulcis, territorio, come sappiamo, tra i più poveri: ora io provavo a ragionare con lui sul contesto nel quale viveva, particolarmente problematico, e perciò bisognoso di tutta la sua conoscenza, ma non c’era punto d’incontro. Del resto, la realtà dei giovani è questa: l’oggetto, ormai simbolo, commerciale è diventato un bisogno primario, sia che si parli di scarpe da tennis, come in quel caso, sia che si parli di altri: non importava l’oggetto in sé, ma che fosse un oggetto condiviso con i suoi coetanei.
Appoggiando, nelle ultime elezioni regionali, Michela Murgia, aveva affermato come la Sardegna avesse bisogno di “narrazione”: a me sembra, invece, e le chiedo, se non ci sia un eccesso di narrazione dei più svariati tipi (nei giornali, nei romanzi, nella televisione) che ha come oggetto la Sardegna e, generalizzando, ben poca azione, soprattutto da parte di chi è delegato a questa azione, principalmente la classe politica. Intendevo narrazione da parte nostra del nostro essere. Pensiamo alla scuola dove sono totalmente ignorate la lingua, la storia, la cultura, la geografia della Sardegna. Si dovrebbe sempre partire dal locale per poi allargare l’orizzonte. Noi, al contrario, abbiamo sempre studiato storia altra.
Un commento sull’omicidio di Gianluca Monni, dove vittima e carnefice sono stai ragazzi di 17 anni. E’ stato qualcosa di nuovo, di impensabile. C’è chi afferma come questo episodio sia figlio ancora di vecchi codici, io, però, ritengo sia un’assoluta novità, da spiegare in termini di detriti di vecchi codici che a contatto con la modernità assumono queste proporzioni. Nel codice barbaricino, quello di Pigliaru intendiamo, la vendetta – che doveva esserci e doveva essere pubblica – era commisurata all’offesa e serviva a mantenere l’equilibrio della comunità. Se venivano sgarrettati dei cavalli, la vendetta, magari, si configurava come furto di bestiame: in questo caso la comunità approvava, perché chi aveva dato inizio alla catena di eventi doveva essere punito, e tutto, quando non si sconfinava nella disamistade, era chiuso. Dagli anni ‘90 in poi si è passati al killeraggio, con eventi assolutamente sproporzionati – come un omicidio plurimo di fratelli a Bitti – con i quali addirittura si sterminava una famiglia. In questo nuovo caso di Orune i motivi scatenanti la vendetta erano di una futilità risibile e la vendetta stessa è stata sproporzionata, inconcepibile. C’è poi un ulteriore fatto al quale ho pensato: sarebbe stato impossibile, in passato, che un ragazzo di Nule andasse, la mattina, a Orune, luogo per eccellenza di balentia, e impunemente facesse quello che ha fatto, con una spudoratezza mai vista. Non credo sia tanto comprensibile questo per chi non conosce quei luoghi; ma io, che sono di Bitti, paese vicino a Nule e Orune, mi rendo conto anche di questa forte novità.
Tornando all’ultimo libro, la scuola ha il ruolo di sola istituzione che possa portare i sardi al “sapere” (sempre in riferimento al titolo); le scuole, però, nei piccoli centri chiudono per mancanza di studenti: la Sardegna è ostile per i giovani. Oltre al dramma dello spopolamento, c’è anche il rischio di un patrimonio di saperi che si disperderà? Questo è davvero un dramma. Non si è saputo rendere moderno e appetibile il mestiere di pastore, non si è saputo creare neanche un percorso di studi. Certo, esiste qualche ragazzo, anche immigrato, pastore ma ormai è un modo di esserlo completamente diverso dal passato. Prima, a 13-14 anni, si partiva all’ovile, con il padre, e la vita all’ovile diventava scuola per diventare uomo: uomo inteso nel significato che troviamo nel sardo,homine, che sottintende tutta una serie di valori. Non si ritrova in altre lingue, se non, ma non completamente, nel latino vir. Così come non esiste in nessun altra delle culture pastorali che ho studiato questa formazione del giovane pastore verso il diventare uomo. Nel mio paese, Bitti, di un grande numero di laureati in medicina solo quattro sono rimasti in bidda, e lo stesso può dirsi dei veterinari e dei laureati in lettere. La destinazione può essere il grosso centro vicino, le città, Cagliari o Sassari, o, altrimenti, la classica destinazione di Londra. D’altra parte cosa si potrebbe rimproverare a uno di questi nel momento in cui voglia andar via? E così si perdono proprio coloro che dimostrano più iniziativa, perché già il volere provare un’esperienza fuori dall’isola dimostra senso d’iniziativa.
Chi raccoglierà l’eredità di pensatori e attori consapevoli come Bandinu, Cherchi, Masala? C’è, nell’élite intellettuale, quella tensione che porta a combattere? Anche la questione dell’élite intellettuale è drammatica. Abbiamo gli accademici che assumono una posizione contraria, a esempio, all’uso della lingua sarda. Ricordo un fatto emblematico: quando Placido Cherchi, che io considero uno dei più grandi intellettuali sardi degli ultimi decenni, partecipò al concorso per ordinario di Antropologia all’Università di Cagliari, venne respinto. Ma come si può respingere Placido Cherchi, che, sicuramente, possedeva la materia meglio della commissione giudicatrice? Commissione giudicatrice sarda che giudicava un sardo! Lo stesso possiamo dire di Michelangelo Pira: certo, alla fine fu inquadrato nell’università, ma non fu pienamente capito, mentre “La rivoluzione dell’oggetto”, suo capolavoro, fu compreso altrove. Le giustificazioni riguardavano il presunto mancato approccio scientifico, quello metodologicamente corretto: questo concetto di “scientifico” solo perché rivendicato dai cattedratici, a me non interessa. A me interessa far emergere un argomento, sviscerarlo e trovare soluzioni, anche se provvisorie. Ora un discorso di Placido sulla Sardegna è il massimo della scientificità, perché scopre la realtà effettuale delle cose e ne considera i vari intrecci e rapporti causa-effetto. Lo studiolo universitario, presuntuoso, magari è scientifico ma non corrisponde ai bisogni reali. C’è il rischio, quindi, che il cattedratico diventi impiegato, col buono stipendio e una buona carriera; ma cosa dai tu accademico alla Sardegna? Come pensiero, affetto, amore? Non entri in relazione con la società sarda e ti chiudi nel tuo palazzo e nella tua gratificazione. Pensiamo agli studiosi di economia, dov’erano in questo periodo drammatico per la Sardegna?
Nel libro “Pro s’indipendentzia”, criticato aspramente, mi sembra di ricordare, dal sito del Partito dei Sardi “Sardegna e Libertà”, si presentava una differenza tra “separatismo” e “indipendentismo”. Possiamo chiarire questo concetto e la sua posizione? Il problema è che io mi rivolgevo ai non-indipendentisti per chiedere se fossimo tutti d’accordo sulla non – dipendenza. Poi, accertata questa, ognuno, chiaramente, mantiene le sue posizioni, le più diverse. Ebbene, la risposta che ho avuto fu proprio quella, del tenore descritto, degli indipendentisti: per motivi diversi però, con attacchi personali, per polemiche precedenti.
Che differenza c’è tra separatismo e indipendentismo, negli effetti reali? Nessuna. Eppure la differenza c’è ed è fondamentale. Il separatista è come preso da una furia di separazione, di odio, di rifiuto dell’altro: mosso da un sentimento negativo, di esclusione. L’autodeterminazione, invece, significa, con un’altra logica antropologica e spirituale, che nessuno sottomette l’altro, si riconoscono gli stessi valori, gli stessi diritti e si entra in comunicazione. Io non credo nelle forme reattive, come il separatismo, perché mi impoveriscono spiritualmente. Io sono figlio di Dante, fino a Montale ma voglio anche studiare Deledda, Satta, il Montanaru: non vedo differenza. Ci si deve proporre positivamente e non con spirito di rivendicazione e paragonarsi all’altro, con giusto orgoglio, in forma comunicante. Come dipendenza cito il caso folle del voler impiantare monocolture di cardo nel nord Sardegna e di canne nel sud Sardegna, per produrre energia di biomasse da esportare: questa è dipendenza.L’indipendenza o la non dipendenza è invece l’orgoglio di se stessi, in questo caso vera identità. In quella che è una catena del male, quella delle biomasse, tutti sono d’accordo, dai politici ai sindacalisti. E’ una cosa inconcepibile.
Parliamo ora di Cagliari: è il capoluogo della Sardegna, ma è l’anima della Sardegna, riesce a coglierne e a rappresentarne l’essenza? Per me la risposta è ancora negativa. Condivido pienamente. Cagliari, nonostante da qualche tempo racchiuda tutte le varie provenienze e si presenti come grande bacino di utenza, non sente l’essere città capoluogo. Anzi come città metropolitana si prenderà tutte le risorse: che sarà di Nuoro, Oristano, Alghero, Bitti? D’altronde anche Zedda ha detto chiaramente di essere il sindaco di Cagliari non di tutta la Sardegna. E i politici come si comportano? Non ci sarà investimento sull’interno, tutto l’interno, dal Meilogu alla Gallura al Monteacuto a tutte le altre zone. Prevedo un impoverimento generale, a vantaggio di un maggiore accentramento per Cagliari e, in secondo luogo, Sassari.
Ora partiamo, invece, dalla Sicilia, che nei giorni scorsi è stata funestata da incendi di matrice umana dolosa. Fenomeno che la Sardegna conosce bene. Cosa spinge l’uomo contro la propria terra? E’ molto difficile trovare una risposta, perché le cause sono le più disparate. Ci sono stati tanti interventi e convegni e la soluzione a cui si è arrivati è stata che spesso si tratta di atteggiamenti maniaci, in odio a se stessi, di motivazioni quasi psicologiche, di una strana goliardia. Io una volta ho parlato di fascino del fuoco, un fascino mitico che possiede l’uomo. Non c’è quindi una risposta univoca, come quella che presenterebbe gli incendi come danno da recare ad altre persone. Io credo che il fenomeno si possa solo controllare e non sconfiggere del tutto, nonostante i tentavi che da qualche tempo si stanno portando avanti.
L’ultima domanda riguarda la fede. La fede, come sentimento di valorizzazione del sé, dovrebbe sostenere le rivendicazioni di un popolo. Io non credo, però, che sia mai esistita, e tanto meno esista, una “teologia della liberazione” sarda, è d’accordo? In questo caso c’è una forte responsabilità del clero e della diocesi, che non crede tanto nei valori sardi. Gli Atti del Concilio Sardo dedicano solo una mezza paginetta, a esempio, alla lingua, pur riconoscendo i valori della cultura sarda. Però, poi, capita di pensare, come l’arcivescovo Mani, che la fede sarda fosse “arretrata”. Ma come? Anche la fede, rapporto con Dio, deve entrare in una logica modernizzante? Ma proprio la modernità, tu clero, la devi sottoporre a giudizio e non puoi giudicare il modo di vivere la fede sardo sorpassato. Come comunicano, inoltre, le diocesi tra di loro? C’è il concetto di Chiesa sarda? Il sardo, come lingua, poi, è considerato inferiore: adatto alla parte della messa dedicata alla lettura della parola ma non alla consacrazione; ora, proviamo a vedere insieme la formula: Questo è il mio corpo, Hoc est corpus meum, Custu est su corpus meus. Dov’è la caduta di stile? Senza considerare la pregnanza della parola proclamata che vissuta da un sardofono ha un immenso campo semantico spirituale. Se tu Dio non lo fai parlare in sardo, glielo impedisci, gli poni una barriera. Quando mi veniva detto che la Chiesa “ci va coi piedi di piombo”, io rispondevo come Cristo non fosse andato coi piedi di piombo in quelle terre di Palestina. Io sono disposto a sperimentare: ho proposto, oltre le trecento messe regolari, una messa in sardo, aperta a chi voglia partecipare. La traduzione esiste già, di alto livello, curata da insigni biblisti, ma non se n’è fatto niente. E’ una cosa inconcepibile.
http://tramasdeamistade.org/
Complimenti !! Molto interesante !!
Bachisio Bandinu Grande risorsa nonche grande uomo!!!
Bachisio Bandinu…lucido e profondo come sempre! Bravissimo! E complimenti per l’intervista!
Grande uomo e grande letterato. L’intervista lo conferma in modo inequivocabile,