A Orune viene ucciso un giovane, a Nule ne scompare un altro. Le indagini conducono abbastanza presto ai presunti responsabili di entrambi i fatti, legati tra loro. Si fa fatica a ricostruire puntualmente la vicenda, per via della difficoltà a reperire prove schiaccianti, anche se la dinamica sembra chiara.
Un fatto di cronaca tragico, diverse famiglie coinvolte, genitori che attendono verità sulla sorte dei propri figli, comunità scosse. Non una novità, di questi tempi. Episodi analoghi, a volte persino più assurdi, compaiono con una certa frequenza nelle cronache europee. Sì, europee ed anche di altre parti del mondo, non solo sarde.
Un disagio, quello dei giovani, poco indagato, se non sulla base di stereotipi, e ancor meno affrontato. Perché se si parla di una generazione bruciata, della mancanza di aspettative, della precarietà dell’esistenza presente e futura di chi oggi ha meno di trent’anni, significa che gli interrogativi da porsi sono molto seri e potrebbero mettere in discussione i modelli economici, sociali e culturali dominanti.
I destini tragici di Stefano Masala e Gianluca Monni rientrano in una casistica fatta di uccisioni per futili motivi all’uscita della discoteca, morti improvvise durante le gite scolastiche, rituali di iniziazione che sfociano in esiti drammatici, stragi nelle scuole e nei campus. Una delle costanti è la scarsa o nulla collaborazione degli altri giovani coinvolti. A volte anche quella delle loro famiglie. Questo, che gli episodi capitino a Bruxelles, a Milano o a Bari (per dire).
Stranamente però solo in relazione ai fatti avvenuti in Sardegna si estraggono dal cilindro le categorie dell’omertà e della “balentia”. Facile scappatoia per chi non ha alcuna voglia di capire e per chi sa che se si cercasse di capire bisognerebbe mettere in discussione ben più della reputazione dei Sardi.
Il guaio è che quasi sempre ad alimentare questi pregiudizi razzisti sono i mass media e gli intellettuali nostrani. Anche qui per scaricarsi la coscienza di un dovere di comprensione che altrimenti li costringerebbe a fare prima di tutto una severa autoanalisi sul proprio ruolo.
Che servizio si rende alle famiglie delle vittime e a quelle dei colpevoli, alle loro comunità e alla Sardegna nel suo insieme riproponendo cliché stantii e inservibili in luogo di uno sforzo di analisi serio? Si aiutano le forze sane e dinamiche della popolazione a consolidarsi e a diventare egemoniche o invece se ne indebolisce l’azione civile e culturale?
Perché la Sardegna sta morendo di ignoranza e povertà culturale, prima che di miseria materiale. Sta morendo di assenza di prospettive, di mancanza di punti di riferimento collettivi, di disgregazione sociale e di spopolamento patologico.
L’impressione rimane sempre la stessa: è come se ci fosse un disegno ben congegnato volto a devastare le nostre comunità e le relazioni su cui ancora si reggono. Non solo deprivazione di servizi e infrastrutture, ma anche della coscienza del proprio posto nel mondo. Tutte cose già dette, da queste parti, ma che è bene ripetere.
Se le istituzioni sarde, a tutti i livelli, non interverranno per negare con decisione l’interpretazione consolatoria della violenza atavica barbaricina a proposito di questo episodio di cronaca, significherà che avallano tale interpretazione e se ne assumono la responsabilità. Ciò significa rendersi complici dei meccanismi di dominio e di sopraffazione che stanno finendo di spolpare l’isola. Ciò significa assumersi una colpa – se non un dolo – di portata storica.
La balentia non c’entra nulla, c’è bisogno di dirlo? Magari esistesse qualcosa definibile come balentia! Ne avremmo davvero bisogno. Ma non c’è. C’è solo, diffusamente, nelle città come nei paesi, una grande passività verso modelli culturali disgreganti, verso forme di socializzazione e di relazione patogene, ormai globalizzate, piuttosto simili ai quattro angoli del pianeta. La Sardegna non ne è affatto esente, al contrario di quanto a troppi di noi piace credere. Perché – dal lato della ricerca delle cause – c’è appunto la solita adesione acritica a mitologie identitarie e a stereotipi profondamente discriminanti, destinati a perpetuare i mali che vorrebbero esecrare.
Impariamo a riflettere su noi stessi con spirito critico e senza indulgenza, ma fuori dal recinto soffocante dell’autorazzismo indotto e dei facili luoghi comuni. È un dovere di tutti. È l’unico modo per non continuare a perpetuare un male niente affatto atavico e invece tutto contemporaneo, tutto da capire e da risolvere dentro il nostro tempo e dentro le sue dinamiche, con gli strumenti di oggi e non di due secoli fa. E, in fondo, anche qui, un modo per assumerci la responsabilità di noi stessi, per non farci più usare come meri oggetti storici in mano ad altri, nelle piccole come nelle grandi cose.
Dopo aver sentito La vita in diretta, mi sta venendo il dubbio che l’articolo dica il vero.
Non si può non essere d’accordo quasi in toto con queste considerazioni di Omar.Rflettiamoci prima di tirare i remi in barca.
ho paura di dirlo, ma se un muro viene su storto hai voglia di incolpare il cemento!!
Ecco il razzismo!
Giusta riflessione. .vivere il quotidiano è difficile in Sardegna .in uguale misura della sua bellezza
Che tristezza!
DA QUANDO ,I POLITICI IN REGIONE ,CHE STANNO UCCIDENDO L’ISOLA E I SUOI ABITANTI,SONO BALENTES ??????….. PERCHE’ SONO COSTORO …CHE STANNO UCCIDENDO I SARDI E LA SARDEGNA ,NON I BALENTES !!!… SARDI CHE’…UCCIDONO LA SARDEGNA E I SARDI.