Per i fanti della Brigata Sassari mantenere quelle trincee fu più arduo e oneroso dell’aver combattuto per loro conquista.
Cento anni sono trascorsi da quel primo inverno di guerra, tra la fine del 1915 e i primi mesi del 1916, caratterizzato da condizioni atmosferiche avverse, che non furono particolarmente favorevoli alle operazioni belliche condotte dai fanti della Brigata Sassari. Quel settore del Carso, era strenuamente conteso dai due eserciti contrapposti.; in primis perché quelle trincee rappresentavano la base di partenza non solo per la conquista del campo trincerato di Gorizia, ma anche per la loro ubicazione, fondamentale, in termini di situazioni sia difensive che offensive nella zona del Monte S. Michele e poi anche per obbedire alle direttive di Cadorna, che imponevano ai fanti italiani l’obbligo di esercitare una continua pressione sul nemico nel medio e nel basso Isonzo. Era inoltre importante che certe operazioni, non di vasta portata, condotte nel periodo invernale, dovessero servire a mantenere lo spirito aggressivo nelle truppe, altrimenti impegnate negli interminabili lavori di sistemazione delle trincee, le quali erano continuamente battute dalle artiglierie nemiche. Pare che ogni mese, per il ripristino e la conservazione delle opere difensive, fossero impiegati 300 milioni di sacchetti di terra e centomila quintali di calce e di cemento, oltre a tre milioni e mezzo di metri di filo spinato. In quelle trincee le attività di presidio erano estenuanti, specialmente in certe zone particolarmente accidentate e disagiate, dove le truppe, spossate dalla fatica, aspettavano trepidanti i turni di riposo, che, a volte, tardavano ad arrivare o che venivano, addirittura, interrotti, prima del termine dovuto. Le condizioni di vita erano disumane. I soldati, a qualsiasi esercito appartenessero, erano costretti a vivere nel fango e a soffrire il freddo. Non potevano, inoltre, dedicarsi alla pulizia e all’igiene personale a causa della mancanza dell’acqua. Dissenteria, tifo e malaria erano affezioni tipiche, che i poveri fanti contraevano usualmente in quelle trincee, dove assieme alle artriti, ai dolori reumatici ed alle polmoniti, serpeggiavano, sovente, la meningite e le epatiti virali. Talvolta i soldati, costretti a stare in piedi con le gambe nell’acqua fino alle ginocchia, venivano colpiti da un affezione chiamata “Piede di trincea”. Costituiva, inoltre, un continuo tormento la presenza di torme di topi famelici, che, a volte, non esitavano a lanciarsi contro gli occupanti delle trincee, oltre a quella di fastidiosi e dannosi parassiti di ogni specie, tra i quali i pidocchi.
“Ma ora arriviamo ai pidocchi. Ohia! Dio ne liberi. Guardi dovunque si sedesse i pidocchi nelle trincee c’erano a migliaia. Più di quanto le formiche vanno ai seminati, dietro ai contadini. Come ero arrivato in trincea, le avevo trovate così forniti di pidocchi. Di notte Dio ne liberi. Cosa facevamo? Eh cosa facevamo! L’unico rimedio era il grattare! Erano nel vestito e specialmente nella cravatta. La cravatta era proprio la tana. Le dico che quando sono arrivato a casa in licenza, c’era il pranzo pronto (io avevo telegrafato da Cagliari che arrivavo) ma a mia mamma le ho detto che non volevo mangiare, ma che volevo il vestito. Guardi non le dico quel vestito, la cintola era nera, piena di pidocchi. Per noi i pidocchi erano una cosa normale. Ma anche gli ufficiali, cosa crede? Tutti uguali di fronte ai pidocchi”. Da un racconto di Settimio Cauli di Orrolì (NU), classe 1899, 152° Reggimento.
Quei mesi di guerra furono decisamente logoranti per i fanti sardi che non si sentivano, per niente, a loro agio proprio a causa delle lunghe e tediose soste in trincea. Dopo le ultime azioni offensive compiute da alcuni drappelli della Sassari nelle ultime notti del primo anno di guerra, i primi due mesi del 1916 trascorsero in un continuo alternarsi tra la Brigata Sassari e la Brigata Macerata nel presidiare le Trincee delle Frasche e dei Razzi e nel trascorrere turni di riposo a Campolongo al Torre e ad Armellino (Isola Vicentina).
il 21 di gennaio la brigata era risalita in linea e nonostante le piogge, il freddo e il gelido vento che soffiava sull’altipiano carsico, i fanti sardi si erano dedicati al consolidamento e al miglioramento delle linee difensive. All’estrema destra delle trincea delle Frasche c’era un camminamento largo appena 80 cm; non era scavato nel terreno, ma protetto da sacchetti di terra per una quarantina di metri sino ad arrivare a sei metri dalla trincea austriaca. Era chiamato il Budello e per turni di quattro giorni era presidiato da trenta uomini e due ufficiali. Costoro disponevano di una serie di razzi illuminanti che venivano lanciati per sollecitare, a seconda del numero, l’immediato intervento dei medi e dei grossi calibri dell’ artiglieria da campagna. Un battaglione era sempre pronto ad intervenire per proteggere quel presidio di 32 fanti. Il giorno 25 ci fu un attacco del 2° battaglione del 151°. Altri attacchi furono tentati fino al 10 febbraio, ma senza alcun esito di rilievo. Dall’11 al 29 febbraio i due reggimenti scesero a riposo nelle zone di Campolongo ed Armellino per rientrare in linea il 1° marzo con il compito di impossessarsi del Budello delle Frasche, un camminamento che collegava le posizioni italiane con quelle nemiche. Il giorno prima dell’azione, programmata per il 13 marzo, le artiglierie italiane non erano, però, riuscite a distruggere i reticolati nemici e tantomeno con il ricorso ai tubi di gelatina si ottennero i risultati sperati; tutto questo a causa della enorme estensione in profondità di quei reticolati. In alternativa, la mattina del 14 marzo, si decise di mettere i tubi di gelatina sotto i reticolati della Tortuosa, una trincea vicina al Budello. Subito dopo la distruzione delle opere difensive un gruppo di arditi si slanciava nella trincea nemica, riuscendo ad eliminare la vedetta. Assieme agli arditi era intervenuta anche la prima compagnia del 152°. L’esplosione di una granata italiana nella trincea causava, però, gravi perdite e pertanto gli austriaci, accorsi numerosi, si dettero da fare, ingaggiando una lotta selvaggia con i sopravissuti e con un gruppo di fanti della 4° compagnia, intervenuti in soccorso degli arditi. Le perdite furono gravissime.
Dal 9 al 15 marzo 1916 fu combattuta la Quinta Battaglia dell’Isonzo. Secondo le intenzioni e convinzioni degli Stati Maggiori Alleati, bisognava far accorrere sul fronte carsico le truppe austriache, impegnate a combattere a Verdun, sul fronte occidentale, a fianco delle truppe germaniche. Il 19 marzo, La Sassari, sostituita dalla brigata Padova; si rischierava a nord di Cervignano del Friuli, alle dipendenze della 19° Divisione, in attesa che fossero rimpiazzate le perdite con l’arrivo di nuovi complementi. Il 20 aprile la Brigata tornava in linea nelle medesime posizioni, dove rimaneva sino all’8 maggio, quando si recava nuovamente a riposo a Campolongo al Torre e ad Aiello. Tra i fanti incominciava a serpeggiare la voce che la brigata non sarebbe più ritornata a presidiare le trincee carsiche. Il 27 aprile, intanto, una granata nemica, esplodendo in una baracca della tenuta di Castelnuovo, aveva causato un’altra grave perdita nelle file della Brigata: (21 morti e 22 feriti); quei poveri fanti colpiti, mentre erano intenti a consumare il rancio, appartenevano alla 9° compagnia. Nei pressi della villa di Castelnuovo, ospitante il comando della 25° divisione, da cui dipendevala Brigata Sassari, esisteva un vero e proprio villaggio di guerra e diverse postazioni d’ artiglieria erano state allestite in preparazione delle future offensive. Le linee contrapposte dei due eserciti erano situate poco oltre la villa, la quale era diventata un luogo di smistamento, ricovero ed ammassamento truppe, oltre a disporre di un posto di medicazione.
Carso 1916
In su carsicu nostru altipianu
Chi de sambene Sardu est cunsagradu.
Contra de custu esercitu, inumanu
Totu po bois hamos supportadu,
Ca su bonu soldadu sardinianu
Hat patria e familia sempre amadu
Cun affettu sinzeru e uguale
Po cale hat una fama universale.
De sa brigada Sarda ogni meritu
Sunt prodigios ch’esaltant dogni coro,
ch’hat gloriosas paginas iscrittu
In su monte Cappucciu a versos d’oro
Sardigna! Totu curlu han’a s’invitu
Sos fizos tuos cun s’ardire insoro.
Esulta e canta su dolore iscazza
Sarda risuscitada inclita razza.
Da Paginas eroicas di Gavinu Ruggiu
Mio padre (Angiolino, classe 1895) era nel 121 ° reggimento (Macerata) e così si alternò con la Brigata Sassari nelle trincee vicino a Castelnuovo e dietro le linee di Campolongo e Armelino. Era arrivato per la prima volta nella zona di guerra nel dicembre del 1915. Questa era la sua prima azione. Nato e vissuto a Mutignano, in Abruzzo, fino ad emigrare negli Stati Uniti nel 1921. Onore a tutti!