di Sergio Portas
Scriveva Elémire Zolla sul numero 128 di “Paragone”, agosto del 1960 una vita fa, a proposito di Mellville e della sua celebre balena bianca: “La natura in antico veniva riverita, oggi viene aggredita senza ritegni, ogni traccia di divinità, cioè di inconoscibilità è in essa sparita…Quale il metodo seguito da Ahab per dominare la natura? Egli deve sottrarle la sua qualità essenziale, l’imprevedibilità…L’arma dello scienziato e tecnico moderno è il concetto di probabilità e di media statistica”. E allora tu tiri su un muro alto sei metri davanti a una centrale nucleare costruita incautamente vicino al mare, statisticamente su quelle spiagge onde di così elevata altezza non se ne sono mai viste, ma il terremoto che si sviluppa, che pure è a cento chilometri di distanza è del più alto grado delle scale che li misurano di sempre, l’onda di “tsunami” che si sprigiona spazza via 400 chilometri di costa, in alcuni punti è alta 40 metri, a Fukushima arriva “solo” ai quattordici: è disastro nucleare. Cinque anni fa, l’11 di marzo. A giugno in Italia un referendum abrogativo fece naufragare il tentativo dell’allora governo Berlusconi di riaprire nel nostro paese il capitolo dell’energia nucleare. In Sardegna pochi mesi prima, in un referendum consultivo voluto da Sardigna Natzione, la stragrande maggioranza della popolazione aveva detto no al nucleare nell’isola (votanti 60%, no al nucleare 99,24%). Ed è dall’anno dopo che l’associazione italo-giapponese “Orto dei sogni” ha l’ambizione di coltivare quelli dei bambini di Fukushima in Italia. Più specificatamente in Sardegna, in grazia del fatto che uno dei cinque soci fondatori l’associazione Claudio Carta è di Riola Sardo, sul loro sito internet ne viene tracciato un profilo sintetico: “Presidente della cooperativa CARTA, per 16 anni ha svolto la sua attività tra Cina e Italia nel settore tessile e dell’abbigliamento. Attualmente in Sardegna, sua terra d’origine, ha avviato un progetto di recupero ambientale e turistico attraverso lo sviluppo di coltivazioni biologiche e di energie sostenibili”. E’ sposato con una giapponese, socia fondatrice come ovvio, Kayo Tokunaga, nel nostro paese dal 2001, giornalista nel settore del life style/ design. Una figlia: Sara, beata lei che parla correttamente giapponese e italiano e sardo e inglese, così quasi per gioco. A giocare vengono portati una quindicina di bimbi giapponesi opportunamente selezionati, otto-dieci anni, particolarmente esposti alle radiazioni, in quel di Marrubiu, l’anno passato erano in località sant’Anna, nella casa parrocchiale della chiesa, ambiente pieno di verde, campo da basket e di calcio. A un tiro di schioppo da Is Bangius che fu, ai tempi di Caracalla imperatore (200 d.C.), “Pretorium” romano per chi, da Karalis, andava verso Forum Traiani (Fordongianus) e più su verso Turris Libisonis (Olbia): c’erano terme con pavimenti a mosaico, e ampie strutture di cui si possono ammirare le rovine, da qui un pregevole museo che il sindaco Andrea Santucciu sta opportunamente molto valorizzando. La scommessa, finora sempre vinta, consiste nel far vivere, per un mese, nel modo più naturale possibile, un gruppo di bambini che, nel loro paese, in modo naturale non vivono proprio per niente, a cinque anni dal “disastro”, dal “sotagai”, l’inimmaginabile, l’imprevedibile, in giapponese. Come stiano le cose da loro lo mostra un documentario che l’”Orto dei sogni” proietta a Milano in Galleria Vittorio Emanuele, sponsor il Comune che pure aiuta il progetto dell’associazione. Morimi Kobaiashi, la presidentessa, dice di una drammatica situazione, di crescenti numeri di tumori infantili alla tiroide: 115 su 385.000 bimbi esposti alle radiazioni, 299 per milione in tutto il Giappone, in Italia sono 2,9 per milione. Dice giustamente che, di fronte a queste cifre, non bisogna chiudere gli occhi né il cuore. Sarà che la regista Hitomi Kamanaka preferisce far parlare mamme piuttosto che i padri, sono comunque loro le grandi protagoniste, anche perché i bambini li tirano su loro, le vedi comunque scavare la terra contaminata (almeno tre centimetri di terreno) sulla strada che porta alla scuola, misurare col contatore Geiger i millisievert e i bequerel che svelano la radioattività del riso o dei pesci, dell’erba in giardino. Farne sacchi di quest’erba contaminata, ve ne sono a milioni attorno a Fukushima, con le tonnellate d’acqua radioattiva stivate in contenitori d’acciaio sono l’eredità che questa generazione di giapponesi lascerà alle generazioni future per i prossimi trecento anni, almeno. Il cesio 137 ci mette 35 anni a dimezzare la sua emissione di radiazioni beta e non finisce di essere nocivo, ma il vero problema è costituito dalle barre di uranio ancora presenti all’interno dei quattro reattori disastrati. A tutt’oggi neppure i robot sono in grado di avvicinarsi al nucleo di queste strutture, smettono di funzionare. Quindi nessuno sa veramente se l’uranio abbia o no fuso il contenitore di acciaio che lo conteneva e se ne stia andando sotto terra, tremila gradi di temperatura, dove inesorabilmente incontrerà la falda acquifera. La verità è che senza una provvidenziale valvola che è saltata e ha permesso alla piscina d’acqua di mare di tracimare sulle barre d’uranio del reattore numero quattro, pericolosamente esposte all’aria, raffreddando il sistema e scongiurando l’emissione di radiazioni in modo incontrollato, si sarebbe dovuta evacuare la popolazione della grande Tokio, qualcosa come 50 milioni di abitanti. Intorno a Fukushima ne sono stati allontanati 160.000, i più vivono in case-container. Lo tsunami ne ha uccisi 16.000, e 5000 sono dichiarati “dispersi”. I bimbi che arrivano in Sardegna possono finalmente fare, per un mese, quello che fanno i bimbi sardi: giocare a pallone, andare scalzi sull’erba (come punge!), coltivare un orto, mangiare malloreddus e seadas, andare al mare a Torregrande. Con loro anche un gruppo di volontari, cinque l’anno scorso quattro quest’anno, che aiuteranno quelli dell’associazione, sono studenti universitari che studiano la lingua giapponese presso il dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Cà Foscari di Venezia. Il gruppo dei piccoli giapponesi è come fosse “adottato” dalla comunità di Marrubiu, le partite di pallone si svolgono fra loro e i coetanei della zona della “Nuova Terralba calcio”. Latte e latticini vengono da Arborea, ci sono chi dà carne e chi frutta che non conosce trattamenti chimici di sorta (Biomura). I muggini per la grigliata vengono da Cabras, dalla “Nuovo consorzio cooperative Pontis”. Al mercato capita di assaggiare pecorino e prosciutto di cinghiale. Dolci sontuosi. E i valori di radioattività delle urine si dimezzano dopo un mese di Sardegna. Gli episodi di epistassi (sangue dal naso) frequenti in almeno la metà di loro si riducono quasi a zero. Subito dopo l’arrivo iniziano gli esami del sangue dei bambini. E’ un servizio sanitario a titolo gratuito grazie al supporto dell’ASL locale. Una volta alla settimana il laboratorio di danza, con maestra Cristina. Nella serata aperitivo organizzata per i sostenitori locali sono stati serviti piatti tipici giapponesi cucinati con cura particolare da Tomoko, la capo-cuoca di Casa Orto (da Osaka dove aveva un ristorante si è trasferita a Oristano dal 2007, scrive anche libri di ricette sarde in giapponese). Le bimbe con il Kimono estivo di cotone dai mille fiori colorati, i maschi con quello rigorosamente scuro. Se questa estate nelle spiagge del Sinis sentite risa e urla di gioia in un dialetto che non è quello di Guspini o di Berchidda non c’è da stupirsi più che tanto: sono i bambini giapponesi di Fukushima.
Ottima iniziativa! Fategli mangiare verdure e frutta di Sardegna, tanto miele e formaggio