A Como, nel pomeriggio di venerdì 8 aprile 2016, per iniziativa del Circolo Culturale Ricreativo “Sardegna”, presso l’auditorium del Collegio Gallio, serata culturale sul tema “Storia della Sardegna nell’Ottocento”, con una relazione magistrale tenuta dal prof. Aldo Accardo, Ordinario di Storia Contemporanea nell’Università degli Studi di Cagliari nonché presidente della Fondazione Istituto Storico “Giuseppe Siotto”, presidente del Comitato Sardo Grandi Eventi e presidente del Comitato Sardo per il centenario della Grande Guerra.
Davanti a un pubblico delle grandi occasioni, dopo i saluti del presidente del Circolo sardo, Paolo Cristin, il relatore ha svolto per oltre un’ora un discorso nel quale ha sintetizzato in modo divulgativo, quindi in maniera comprensibile anche da parte di un uditorio che non ha dimestichezza con gli studi specialistici relativi alla storia della Sardegna nell’Ottocento, i risultati conoscitivi pubblicati nel volume “Scegliere la Patria. Classi dirigenti e Risorgimento in Sardegna”, da lui scritto a quattro mani con il collega Nicola Gabriele (prefazione di Alberto M. Banti, Donzelli editore, 280 pagine).
Accardo ha esordito ricordando che nel confronto politico, a convalida di una determinata tesi, viene spesso richiamato un argomento storico. La storia viene quindi “tirata per la giacchetta” da una parte e dall’altra ma essa non può essere assunta come un tribunale che deve giudicare chi ha ragione e chi ha torto: una cosa seria è solo il confronto fra le diverse posizioni argomentative.
Guardiamo al giudizio che si dà in Sardegna al governo dei Piemontesi: alcuni dicono che è stato un disastro, i cui molteplici danni si sarebbero potuti evitare se i sardi fossero stati indipendenti; altri invece ribattono che ci sono stati anche aspetti positivi. Bisogna quindi vedere le cose con equilibrio.
Quando il Regno di Sardegna – dopo la Guerra di successione spagnola – in forza dei trattati di Londra del 1718 e dell’Aia del 1720, l’8 agosto del 1720 passò a Vittorio Amedeo II di Savoia che lo aggregò agli Stati ereditari formati dal Principato di Piemonte e dagli altri territori della casata, esso diventa “proprietà” dei nuovi dominatori dato che allora vigeva la concezione patrimonialistica dello Stato.
In Sardegna i Savoia mandano un Viceré e questi si preoccupa di “non abbellire la sposa”: praticamente, per non renderla appetibile agli occhi di potenziali nemici, l’Isola, che pure ha dato ai Savoia una base territoriale che consente loro di assumere il titolo di re, non conosce nessuna positiva trasformazione, nessuno sviluppo, mentre invece, contemporaneamente, i territori di terraferma del regno di Sardegna sono interessati da molte riforme.
Ha scritto Accardo: «Una pagina brillante di Montesquieu, molto nota, racconta – riportando l’esperienza del Saint Remy, primo Viceré dell’Isola – quale fosse il giudizio di Torino sulla Sardegna e i suoi abitanti: una terra arida e spopolata, dove gli abitanti non falciano l’erba né piantano alberi perché i loro padri non l’hanno mai fatto».
In Sardegna, solo Giovanni Battista Lorenzo Bogino (Cravagliana, 1701 – Chieri, 1784), che operò presso la corte di Carlo Emanuele III, per il quale fu Ministro per gli affari di Sardegna dal 1759 al 1773, diede impulso ad importanti riforme, prima fra tutte il rinnovamento dei fossilizzati docenti accademici locali delle Università di Cagliari e Sassari con professori portatori di nuove e progressive conoscenze sia in campo scientifico (la fisica di Newton, per esempio) sia in ambito umanistico.
Gli insegnamenti impartiti da costoro con lezioni rinnovate nei contenuti e con l’adozione di testi moderni di studio “importati” anch’essi finalmente in Sardegna favorirono una vera e propria “rivoluzione delle idee” (così la definiscono oggi gli storici Antonello Mattone e Piero Sanna): si può dire che in quegli anni la Sardegna entra nella modernità.
Anche l’ “inonorato esilio” (così lo chiamò Carducci) della corte in Sardegna, a partire dal 1799 fino al 1814, apportò ben pochi benefici all’Isola, la quale conobbe la restaurazione 20 anni prima della Grande Restaurazione, che interessò l’Europa dopo il Congresso di Vienna del 1815, senza aver avuto gli influssi rinnovatori che avevano influenzato i Paesi che erano stati “contagiati” dalla mentalità nuova susseguente alla diffusione delle idee della Rivoluzione francese e al portato delle azioni ispirate al modello napoleonico.
Così il feudalesimo in Sardegna fu abolito solo nel 1836, con anni di ritardo rispetto ad altri territori, e non fu per niente “eversione”, anzi: ai feudatari infatti toccò non solo un riscatto ma anche il privilegio di deciderne essi stessi il prezzo e di indicare chi doveva addossarsi questo “risarcimento” (si fa per dire): in pratica il popolo, che in teoria avrebbe dovuto essere il beneficiario vero della liberazione dal giogo (uno di questi feudatari, quando seppe quanto gli sarebbe venuto in tasca, affermò: «Finalmente adesso mi sento duca…»).
A seguito della richiesta dei ceti dirigenti di Cagliari e Sassari, che avevano promosso una mobilitazione popolare per richiedere l’unione con i domini continentali per ottenere l’applicazione delle riforme introdotte negli “Stati di Terraferma”, il re Carlo Alberto concesse la «fusione» il 29 novembre del 1847. Con la «fusione perfetta», che significò in pratica l’ «eutanasia del regno, che segnò la fine delle Istituzioni del Regnum Sardiniae», venne soppresso anche il titolo di Viceré di Sardegna.
La «fusione perfetta» ebbe conseguenze vantaggiose per i produttori sardi di olio e di vino, che poterono vendere in continente a prezzi di mercato senza dazi iugulatori. Ma la politica moderna in Sardegna cominciò con la concessione all’Isola dello Statuto albertino, il 4 marzo 1848: si accese una salutare dialettica politica, anche se il diritto di voto lo avevano solo pochi; finì la concezione patrimoniale dello Stato.
A conclusione della sua relazione sul punto cui è arrivato il dibattito specialistico sulla storia della Sardegna durante l’Ottocento (storia caratterizzata, rispetto ad altre regioni italiane, da quattro A: arretratezza, asincronia, anacronismo, asimmetria), facendo solo un cenno ai modi seri (quindi né indipendentismo, né separazione) in cui bisogna concepire l’autonomia regionale della Sardegna oggi, Accardo ancora una volta ha ricordato le parole di Emilio Lussu: “Noi sardi non siamo né migliori né inferiori rispetto agli abitanti di altre regioni”.
Dopo l’applaudita relazione è stato proiettato un documentario sulle caratteristiche del Calendario Storico dell’Arma dei Carabinieri 2016 (di cui, con il titolo di “Calendariu Historicu se s’Arma de sos Carabineris 2016”, esiste, come negli ultimi anni, un’edizione con testi in lingua sarda a cura di Luciano Carta).
Ovviamente soddisfatti del grande concorso di pubblico il presidente Cristin, i membri del direttivo e i numerosi soci del Circolo sardo di Como che hanno lavorato all’organizzazione dell’iniziativa culturale.
Molte le autorità presenti all’incontro: il Prefetto di Como, Bruno Corda; il Comandante provinciale dei Carabinieri di Como, col. Roberto Jervolino; il Questore di Como, Michelangelo Barbato; Domenico Lerro, ex Prefetto di Como; la Prof.ssa Maria Antonia Brovelli, Prorettrice per Como Campus-Politecnico di Milano; Alberto Longatti, presidente “Famiglia Comasca”; Francesco Peronese, presidente Società palchettisti Teatro Sociale di Como; Antonio Paddeu, primario nell’ospedale di Mariano Comense (Como); Ambrogio Taborelli, presidente della Camera di Commercio di Como.
La FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia) era rappresentata da Antonello Argiolas (uno dei due vicepresidenti, nonché coordinatore della Circoscrizione Lombardia, che conta 20 circoli); da Onorio Boi, presidente del Collegio nazionale dei Probiviri; da Franco Saddi, dell’Esecutivo nazionale, con alcuni soci del circolo “Amedeo Nazzari” di Bareggio-Cornaredo.