di Salvatore Tola
Nel pomeriggio di lunedì 4 aprile 2016, nella Sala Transatlantico del Consiglio regionale della Sardegna, è stato presentato il volume di Gianni De Candia “Sardegna, la grande diaspora. Memorie e ricordi dei 40 anni della cooperativa ‘Messaggero sardo’ (1974-2014)”, edito da Carlo Delfino di Sassari. Moderati da Rosanna Romano, capo ufficio stampa del Consiglio regionale, sono intervenuti De Candia, Gianfranco Ganau (presidente del Consiglio regionale) e i giornalisti Franco Siddi e Salvatore Tola. Quest’ultimo ci ha inviato il testo completo della sua relazione, sintetizzata a voce a Cagliari.
Sono stato a lungo collaboratore del “Messaggero sardo”, il giornale che ogni mese partiva da Cagliari per raggiungere gli emigrati sparsi in tutte le parti del mondo; e posso testimoniare che è stata un’esperienza unica, per più di un motivo.
Soprattutto mi ha portato a un livello, a una profondità dei rapporti umani che nessuna altra attività di pubblicista che ho svolto negli anni mi ha mai dato.
Ero incaricato di mettere ordine tra le tante poesie che arrivavano alla redazione, e di ricavarne una pagina antologica. Ma insieme alle poesie i lettori spedivano le loro lettere, attraverso le quali mi esponevano i loro sentimenti, mi raccontavano le loro storie, e intanto mi offrivano la loro amicizia e chiedevano in cambio la mia.
E di tanti sono divenuto amico. Voglio ricordare almeno zio Palmerio Masia, che si era formato alla scuola degli scalpellini del suo paese, Ghilarza, poi era partito in cerca di lavoro, andando di isola in isola: prima a La Maddalena, poi all’Isola d’Elba. Ci scambiavamo lettere, ricordo che una volta usò l’espressione: «L’iscrio a tinta ’e lacrimas», qualcosa come: “Le scrivo intingendo la penna nelle lacrime”; con un’immagine retorica che mi guardai bene dal condannare.
E andai a trovarlo all’Isola d’Elba, dove aveva aperto una piccola cava dalla quale sapeva ricavare manufatti rifiniti, come i pezzi per un caminetto o quelli per incorniciare una finestra. Quando lo conobbi l’aveva già affidata al figlio, era ormai anziano e viveva di ricordi e di nostalgia.
Mi sono soffermato su questa mia esperienza per dare meglio l’idea di quella vissuta da Gianni De Candia – tanto più intensa della mia, come maggiore responsabile del giornale –, e che alla fine lo ha portato a scrivere l’importante libro che è stato pubblicato di recente: si intitola Sardegna la grande diaspora, sottotitolo: Memorie e ricordi dei 40 anni della cooperativa “Messaggero sardo” (1974-2014) (Delfino editore, Sassari, 25 euro).
Credo che il coinvolgimento personale e la partecipazione umana che ha vissuto, con il ruolo che rivestiva all’interno del giornale, non siano paragonabili con quelli che negli stessi anni sperimentava nell’ambito della sua attività professionale, quella di giornalista dell’Ansa. Il “Messaggero”, infatti, non era semplicemente un fascicolo zeppo di articoli che partiva dall’isola per raggiungere i suoi lettori: c’erano le lettere, attraverso le quali tanti di loro raccontavano storie, esponevano problemi, chiedevano notizie, aiuto, solidarietà. E poi c’erano i circoli dei sardi sparsi in tutto il mondo, e la necessità di conoscerli, per poterne dare notizia. E Gianni rispondeva alle lettere, e girava l’Italia e il mondo per conoscere le diverse realtà: realtà fatte di persone, delle loro vicende, del loro impegno, della loro caparbia volontà di conseguire un riscatto, come ha scritto nella presentazione del volume il presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau.
Di tutto questo egli dava poi puntualmente conto nelle pagine del giornale, mentre nel tempo cresceva in lui, insieme alla vasta conoscenza, il coinvolgimento personale e umano.
Da qui nasce la natura complessa, o per lo meno duplice, del libro: da un lato i fatti, le date, i congressi, le iniziative dei circoli e le misure prese dalla Regione a favore degli emigrati; dall’altro le storie private di tanti, la loro ansia di emancipazione, l’impegno per dare avvio ai circoli e alle altre iniziative comunitarie.
Mentre della prima parte si può trovare traccia in carte e documenti, la seconda è patrimonio unico della memoria di Gianni De Candia. Anche sotto questo profilo il libro è unico e De Candia era l’unico che poteva scriverlo. E meno male che ha avuto occasione di scriverlo partendo, come racconta nella premessa, da una relazione che era chiamato a presentare nel momento in cui tutta la documentazione del giornale veniva versata all’Archivio di Stato di Cagliari.
Da qui è partito per raccontare con maggiore ampiezza la storia del giornale, poi ha finito per dare un quadro ricco di dettagli della storia dell’emigrazione sarda dal dopoguerra sino ai nostri giorni, con particolare attenzione verso la capacità dei singoli gruppi di darsi un’organizzazione.
L’elenco dei capitoli e dei paragrafi, l’indice dei nomi, le numerose fotografie danno un’idea della ricchezza e della coralità della narrazione. Il volume, che raggiunge la 430 pagine, si divide in quattro parti.
Nella prima viene ricostruita la storia del giornale, con la sua progressiva affermazione, fino a raggiungere la tiratura di 75.000 copie; ma anche le difficoltà di volta in volta affrontate e superate: si pensi soltanto alla gestione di un elenco così lungo di indirizzi.
La seconda offre il quadro dettagliato dei circoli e delle leghe, poi federazioni, in cui si riunivano e si riuniscono: per ciascuno la fondazione, l’andamento, gli animatori, le iniziative…
Nella terza la storia dei rapporti che il mondo dell’emigrazione ha avuto con i politici e gli amministratori regionali, specie attraverso le consulte e le conferenze che si sono svolte nel tempo, a partire dal 1978 per arrivare al 2014; ma viene data notizia anche delle colonie estive e degli assegni di studio che venivano predisposti per i figli degli emigrati.
Nella quarta De Candia rievoca alcuni dei viaggi che lo portavano in giro per l’Italia e per il mondo, sino all’America e all’Australia, e dà poi una galleria di ritratti delle persone conosciute nel tempo. Di fatto il rapporto che stringeva con ognuna di loro sfociava subito dalla semplice conoscenza nell’amicizia. Così che, oltre a raccontarne una storia generica e il ruolo nei circoli, egli era in grado di riferire, con la loro autorizzazione, anche le vicende private, personali e familiari.
Possiamo così conoscere a fondo Tullio Locci che a Savona, dove risiedeva, diede vita a un circolo, che divenne poi anche sede della Lega dei circoli sparsi per l’Italia. Pronto a mille iniziative, si diede da fare soprattutto per ridurre le difficoltà che i compatrioti incontravano a Genova e a Civitavecchia per raggiungere la Sardegna, fino a concordare per loro, con la Tirrenia, una «corsia preferenziale». Nato nel1905, haraggiunto i 103 anni di età.
Ben più breve la parabola biografica di Tore Todde, nativo di Telti, che, a causa di una malattia contratta in Germania durante al costruzione di una strada attraverso la Foresta Nera, è morto a 28 anni; ma sino agli ultimi anni si è impegnato per gli altri emigrati, preoccupato soprattutto di far apprendere la lingua locale, che riteneva passaggio indispensabile per inserirsi nella comunità e nel mondo del lavoro.
E poi Antonio Aru di Gonnosfanadiga, che dopo un’infanzia difficile era riuscito ad avere un posto di portantino a Cagliari; ma dopo essersi trasferito in Olanda riuscì a laurearsi e a divenire medico, e intanto trovava il tempo per occuparsi degli altri sardi, fino a fondare e animare il circolo di Copenaghen.
Anche molte donne sono state capaci di manifestare, nel mondo dell’emigrazione, energie e capacità d’iniziativa insospettate. Come Anna Maria Sechi, originaria di Perfugas, in Belgio da mezzo secolo, che oltre a occuparsi della famiglia si è impegnata nella vita dei circoli e della Federazione, «e ha lottato come una leonessa», scrive De Candia «per attirare l’attenzione delle autorità sanitarie sulla talassemia, una malattia sottovalutata, di cui quasi ignoravano l’esistenza»; né ha trascurato, da buona sarda, di praticare la poesia «in limba».
Questa è a mio parere la parte che caratterizza meglio il libro, e dimostra che il lavoro al “Messaggero” non poteva limitarsi, come dicevo all’inizio, in una semplice trasmissione di informazioni ma si trasformava in un groviglio caldo e struggente di rapporti umani: lo conferma Manlio Brigaglia, che nell’introduzione scrive che questo libro «non si legge e non si chiude senza commozione».