LA MIA GENERAZIONE: APOCALITTICI E DISINTEGRATI (SOPRATTUTTO NEL CURRICULUM)


di Francesca Madrigali

Oggi ho dovuto riscrivere rapidamente il mio curriculum e pure una brevissima biografia. Lo sgomento mi ha colta dopo pochi minuti, davanti a quei files tutti diversi: aggiornati e no, ma soprattutto di varia tipologia e estensione. 

Quei fogli “formato europeo” raccontano, nero su bianco, un percorso apocalittico tra i più diversi lavori, anche “disintegrato” per via della sua frammentazione, delle sue interruzioni, discrepanze, soprattutto delle tipologie diverse di cose fatte. 

Lontanissima dal capire cosa potrebbe voler dire per un selezionatore del personale (sei molto figa perché non sei stata quasi mai ferma o al contrario è un iperattivismo isterico e poco centrato?), mentre mi affaticavo a condensare il mio percorso- quindi me- in poche righe mi è venuto in mente che forse la mia è una situazione comune a molti della mia generazione, quella degli anni Settanta e qualcosa (ma ormai possiamo serenamente attaccarci anche gli anni Ottanta).

Da un certo punto in poi, cioè, abbiamo – spesso con ritardo- cominciato finalmente a capire che quello che avevamo studiato poteva anche non servire a molto, e che dovevamo adattarci. Fatto. 

Fatto una volta, due, dieci, cento. Questo non è di per sé negativo, semplicemente è il tempo che ci è toccato in sorte, fatto di andate e ritorni dal lavoro, di precarietà, di flessibilità disonesta e talvolta di opportunità: ma quando ci sei dentro non vedi chiaramente cosa c’è dietro l’angolo, o in lontananza. 

E ancora oggi non sappiamo bene come siamo messi: sappiamo però che quindici-vent’anni non sono passati invano e hanno irrimediabilmente disgregato più generazioni. Ascoltate qui i podcast di “Tutta la città ne parla”, segnalatomi da un’amica, sul tema dei 30enni e oltre senza lavoro. 

Il ricercatore intervistato afferma che “la novità degli ultimi anni è che ci sono molti passi indietro rispetto al passato, succedono cose che non permettono più di scandire le tappe della vita personale. Tutto ciò provoca un disorientamento molto forte, è un cambiamento epocale in cui la parola futuro fa paura anche ai ragazzi di 16-17 anni”, che vedono quelli che per noi erano i “vecchi”, cioè i genitori o quelli della loro età, in balia di un presente maligno e di un futuro incerto.

I giovani, insomma, sono l’appendice indifesa di un tempo “interessante”, alla maniera dell’antica maledizione cinese: ma almeno loro vengono menzionati, quindi esistono.

I dati Istat sulla disoccupazione a febbraio (qui Il Corriere: “Risale la disoccupazione, ma scende quella giovanile”: ma non viene precisato che la cifra è identica, e cioè 0,1%) mostrano, al di là dei numeri, alcune caratteristiche interessanti: l’aumento della forza lavoro adulta- a febbraio 2016 ci sono 286 mila occupati con più di 50 anni rispetto all’anno precedente (+3,9%) e 17 mila in più rispetto a gennaio (+0,2%)a fronte di cali nelle fasce di età centrali (tra i 25 e i 49 anni) di 210 mila persone nell’ultimo anno e 125 mila nell’ultimo mese.
Dalla rilevazione sono esclusi gli inattivi, che cioè non studiano e non lavorano: significa che i senza lavoro sono effettivamente molti di più. Questi elementi non rientrano mai nella titolistica dei media, cioè di chi dovrebbe comunicare la notizia.

Viene dato risalto invece all’aumento di ben 0,2% punti, nell’ultimo mese, del tasso di occupazione tra i 15-24enni e del loro calo di inattività (-0,3 punti al 74,3%), che, lo ricordiamo, potrebbe anche essere il fatto che si sono iscritti a un qualsiasi corso professionale.

Quindi è rilevante, in un Paese di milioni di abitanti, uno 0,2% tra i quindici-sedici-diciassettenni o ventenni, quelli che dovrebbero in qualche modo studiare, almeno nel Paese della terza media come titolo di studio più diffuso.

Quelli che hanno paura, e a ragione, della parola “futuro”. Perchè hanno visto fallire i fratelli e i genitori,quelli che un vecchio pezzo di “Avvenire” definisce “gli altri NEET”- quasi sempre, va detto, per cause di forza maggiore, perché è un’età infelice per re-istruirsi, per ri-ciclarsi, re- inventarsi nonostante fiorisca da tempo una mitologia del “cambio vita a quarant’anni” alimentata da alcuni rari casi.

Una categoria che include i “giovani” e gli “ex giovani”, immersi in una terra di nessuno di cui non riusciamo a delimitare i confini anche anagrafici, ma soprattutto sentimentali, intesi come progetti e impulsi di vita.

Lamentarsi, è ovvio, non serve a granchè, se non ad attutire il colpo del crollo delle certezze. Che però, ormai, visto che il cambiamento epocale va avanti da almeno una quindicina d’anni, riguarda forse più le generazioni precedenti che la nostra. Noi possiamo giusto prediligere il presente rispetto al futuro, in una sorta di religione del tutto personale che ci vieta i programmi a lunghissima scadenza o al contrario ci deve far vivere le cose d’istinto, qui e ora, senza pensarci troppo. 

Quei piccoli consigli di sopravvivenza di qualche anno fa me li sono riletti e sono sempre d’accordo (Cinque cose da salvare in caso di crisi e le altre cinque) anzi direi che la passione è sempre e comunque il salvavita più efficace.

E se abbiamo fatto tante cose, tanti lavori diversi, e ci sentiamo un po’ tutto e quindi niente di preciso, dobbiamo comunque stare tranquilli: ogni pezzetto ci ha fatti come siamo adesso, e quello che sappiamo oggi- e che ci piace oggi, e che quindi ci fa andare avanti oggi– è il frutto, anche, di quella piccola-grande disgregazione. E quindi è andata bene così.

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