di Valencia Saba
Luciana Ortu è nata e vive in Campidano. Maturità classica e studi in giurisprudenza, si occupa dell’azienda agrumicola di famiglia, coltivando la passione per la letteratura e l’archeologia. Ha partecipato a svariati concorsi letterari regionali e nazionali, così che molti suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste online. I racconti spaziano dal ricordo d’infanzia in tono intimistico e delicate storie di Natale a storie di fantascienza o vagamente noir. Ha scritto un capitolo per un giallo a 24 mani pubblicato per beneficenza. Ha curato il catalogo per celebrare i quaranta anni di attività artistica del pittore sardo Piero Ligas, e corretto le bozze e partecipato alle ricerche per un saggio d’archeologia sui Nuragici. E’ quella che si può definire una sarda verace: donna intelligente e intuitiva, dotata di una dignitosa fierezza che solo una persona superficiale potrebbe scambiare per alterigia. Il senso dell’umorismo ed una vena ironica al tempo stesso lieve e caustica rappresentano i compagni di viaggio di questa piccola donna tenace.
Luciana, com’è nata la passione per la scrittura e quando hai iniziato a dedicarti ad essa? Il primissimo esperimento di scrittura risale alle elementari. Avevo un quaderno in cui scrivevo a quattro mani con mio padre delle piccole storie, delle poesiole. Ricordo che lui illustrava le nostre poesie, che parolona, storie in rima forse sarebbe la definizione più adatta, con dei disegni. Le abbiamo scritte per qualche anno. Mi spiace soltanto di aver buttato, forse alle superiori, il quaderno considerandolo un gioco da bambina. Sicuramente lo era, non credo avesse valore letterario, ma affettivo sì. A parte questo, sono sempre stata una lettrice, amo immergermi nelle storie che leggo. Quanto alla scrittura intesa come oggi, ossia il raccontare storie, invece, la voglia di mettermi in gioco è nata molto dopo. Ho partecipato quasi per scommessa a un concorso letterario regionale e ho superato le selezioni. Da lì ho preso coraggio e ho proseguito.
Il tuo romanzo edito recentemente da Amarganta, “Il gusto della vita”, ha assunto una funzione terapeutica, come ausilio per elaborare un lutto. Puoi darci qualche altro particolare? È esatto. Il mio primo romanzo, dopo una lunga gavetta di racconti pubblicati qua e là, è nato quasi per caso pochi giorni dopo il funerale di mio padre. Ho sempre avuto l’abitudine di scrivere, anche solo delle lettere, o pagine di simil-diario, soprattutto nei momenti di confusione interiore. Scrivere mi ha sempre aiutato a prendere le distanze da un fatto, un’emozione, un sentimento. Riesco a osservarlo, analizzarlo, come se fosse di un’altra persona. Scrivere a caldo le mie emozioni, il mio dolore, il senso di sradicamento è stato quindi naturale. Paginetta dopo paginetta, mi sono accorta che il fatto di appuntare quei momenti di vita (ho perso mio padre pochi mesi dopo il mio matrimonio), di condivisione anche dei pasti, e la scelta delle pietanze che giorno per giorno mi ritrovavo a preparare, mi aiutava. E così ho continuato. Sentivo che mi faceva star bene, ed era quel che mi occorreva, in quel momento. Per farlo diventare un romanzo, visto che non è un diario in senso stretto, ho dovuto lasciarlo decantare diverse volte, per un bel po’ di mesi. E così è nato questo romanzo atipico. È una storia d’amore, il cui fulcro è la cucina.
La protagonista, Laura, rispecchia appieno la tua personalità oppure presenta tratti distintivi che non ti appartengono? La protagonista è sicuramente cucita su misura per me. Per motivi tecnici alcune cose che fa e che dice non sono “al cento per cento” miei, il romanzo non è pedissequamente autobiografico, c’è spazio anche per la fantasia. Ma il suo dolore, la sua tenacia, il suo struggimento, il modo di reagire e l’amore per il padre sono senza ombra di dubbio i miei.
Domanda un po’ provocatoria. Credi che l’essere sentimentalmente appagati (tu hai un matrimonio felice) possa penalizzare un’attività come la tua, in cui pare che chi è affettivamente tormentato possa accedere a profondità inusitate? Non credo che l’essere sentimentalmente appagati sia penalizzante. È vero che raccontare tormenti d’amore è un classico, nei romanzi che troviamo comunemente in libreria. Ma l’esser felici ora non significa che non si sia stati infelici prima, e quindi possiamo raccontare un sentimento che abbiamo conosciuto. E poi, chi fa lo storytelling, il cantastorie, fa appunto questo: racconta storie. Emilio Salgari non si è mai mosso dall’Italia. Non per questo il suo Sandokan e la Perla di Labuan sono meno veri e palpitanti. Come tutti i personaggi letterari, durante la scrittura prendono vita e vanno dove vogliono loro. Non sempre fanno, dicono o pensano quello che pensiamo noi, intesi come autori. Anzi!
In che modo la Sardegna e il tuo essere figlia di questa terra influiscono sulle tue opere? Sono sarda e non lo nascondo. Nel mio romanzo la Sardegna è protagonista quanto Laura e Josto, la coppia di sposi protagonisti “umani” della storia. Le tradizioni, le abitudini, i ricordi, le storie d’infanzia, il clima (il vento, il caldo, le sue piante e i suoi profumi) non sono un semplice sfondo alla trama del romanzo. In effetti, dopo aver ottemperato alla funzione terapeutica mia personale dell’elaborazione del lutto, quello che volevo sottolineare in questo romanzo era proprio la consapevolezza delle proprie radici. Radici nel senso più ampio del termine. Quelle familiari: mio padre, quello che lui mi ha insegnato, i miei nonni. E quelle fisiche e geografiche: le zone di provenienza dei miei antenati, l’amore per la terra. E che quello che sono diventata è nato in questa terra millenaria, dove affondano saldamente le mie radici. Dirò di più. Il romanzo è in qualche modo anche una contro-guida, una sorta di Baedeker della Sardegna, quella vera, vissuta, e non da cartolina. Vista anche dal punto di vista olfattivo, la mia è una descrizione sensoriale, se così possiamo chiamarla. Superato il problema dell’elaborazione del lutto, quel che importava era comunicare un’emozione. E dai commenti finora ricevuti, direi che ci sono riuscita.
Pensi che sia più difficile essere scrittori in Sardegna, o gli ostacoli non conoscono differenze geografiche? Forse prima era più difficile, non saprei. Adesso, grazie a Internet, le distanze geografiche sono facilmente superabili. Gli ostacoli… più che geografici sono nel fatto che non è mai facile riuscire a pubblicare qualcosa, a meno che non si ricorra all’auto-pubblicazione, ma così non c’è gusto: non passi la selezione e non sai se il tuo scritto merita. In ogni caso, la forza di volontà, la testardaggine (che si dice sia tipica dei sardi, sarà anche quello?) aiutano. Il mio progetto non era facile, né tipico, mi sono dovuta persino inventare il genere. Quando ho spedito il manoscritto alla casa editrice si è posto il problema di definire a che genere appartenesse il romanzo. Non era solo un diario. Non era un’autobiografia. Non era un giallo. Non era un ricettario. Non era soltanto una storia d’amore. Ma era tutte queste cose insieme! Ovvero… un cooking-romance! E per giunta ambientato in Sardegna, ma non nel Nuorese pastorale. Nel Campidano, e a Cagliari. Una sfida. Ma le strade facili non mi sono mai piaciute.
Cos’hai ancora in serbo per i tuoi lettori? La passione per la scrittura non mi ha abbandonato. Ho in programma un romanzo ed una pièce teatrale a quattro mani basati su un tema di stringente attualità. Sto anche raccogliendo materiale per un altro cooking-romance, giacché ho creato un genere… che sia! Non so ancora cosa si concretizzerà per primo, ma non è importante. Dar vita a storie e personaggi è un gioco che mi diverte ancora molto. Anche se mi accorgo che marito e familiari e amici ora mi si avvicinano con più circospezione, nel raccontarmi qualcosa. Sanno che tutto quel che mi dicono potrebbe finire, prima o poi, in qualche romanzo!