VENDETTA, TREMENDA VENDETTA! CONVEGNO A CAGLIARI: ANTROPOLOGIA DEL DIRITTO, ISTINTO O ISTITUZIONE?

nella foto da sinistra: Prof. Antonio Incampo, il giornalista Celestino Tabasso, Prof. Vincenzo Ferrari, Prof. Pier Luigi Lecis, Dr Mauro Mura, Prof. Letizia Mancini.


di Mario Salis

Basta legarsela al dito, per non dimenticare un torto subito, come l’orgoglio sconvolto dall’odio. Covata per anni, tramandata per generazioni. Salvo poi scatenarsi efferata, inarrestabile, nell’attimo di una follia. Tremenda, implacabile come la collera: la vendetta.

“Vendetta: istinto o istituzione?” Il tema del convegno promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza di Cagliari in occasione della pubblicazione del volume: “Antropologia della vendetta”, a cura di Giuseppe Lorini professore associato di Filosofia del diritto all’Università di Cagliari e di Michelina Masia docente di Sociologia del diritto presso lo stesso ateneo. Nell’aula magna “Maria Lai” ad animare il dibattito, coordinato dal Professor Pier Luigi Lecis: le relazioni di Vincenzo Ferrari – Università Statale di Milano, International Institute for the Sociology of Law of Oñati – Pluralismo giuridico e relatività concettuali; Antonio Incampo – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”- Vendetta barbaricina e terzietà del giudizio; Mauro Mura Procuratore capo della Repubblica di Cagliari – Vendetta barbaricina e giurisdizione penale oggi; Letizia Mancini – Università Statale di Milano – Oltre il folk law. Contributi dell’antropologia alla comprensione della vendetta; il giornalista Celestino Tabasso – Presidente dell’Associazione della Stampa Sarda – Dal fioretto alla clava: giornalismo e vendetta.

La pubblicazione scientifica fa seguito all’analogo convegno di Austis del 2012 con studiosi provenienti da varie università italiane: Cagliari, la Statale e la “Bicocca” di Milano, Pavia, Torino, Trento, Urbino, dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dall’estero: Moores University di Liverpool, Universidad Veracruzana di Xalapa, Messico, Università di Danzica, Polonia. La monografia corredata da ventuno saggi ad opera di filosofi, giuristi, antropologi, sociologi ed etologi affronta da punti di vista specifici l’influenza della ragione e della cultura sulla natura istintiva ed aggressiva del comportamento umano, che genera molteplici forme ed aspetti della vendetta. Quella del Kanun albanese, del samurai, delle saghe nordiche medioevali, del diritto induista arcaico.

“La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico” di Antonio Pigliaru, filosofo del diritto che nel 1959 pubblica il suo studio di antropologia giuridica con la codifica di 23 articoli. Testimonianza diretta di un ordinamento consuetudinario che regolamenta un’intera comunità pastorale. Un contributo fondamentale di indagine sul campo, che per tanti anni è rimasto nel ristretto novero degli ambienti accademici, ma che nel tempo dovette subire contaminazioni fuorvianti come l’accostamento approssimativo al fenomeno del banditismo sardo, sulla scia della lunga stagione dei sequestri. Trentuno ostaggi scomparsi nell’arco di mezzo secolo, crearono un forte impatto emotivo sull’intero territorio nazionale.

“Rappresentazioni e mistificazioni della vendetta barbaricina” un capitolo centrale della curatrice dell’opera, la sociologa Michelina Masia, che dimostra peraltro, come perfino una variegata documentazione letteraria e cinematografica ha consolidato una certa idea della vendetta a sfondo prevalentemente economico e passionale, da far impallidire il filone western di Sergio Leone, nella migliore delle ipotesi. Tuttavia non mancò qualche eccezione con registi di valore come Vittorio De Seta e Carlo Lizzani. L’antidoto più volte somministrato al disagio sociale, costituito da endemiche forme arcaiche di assetto economico, si rivelò un massiccio processo di modernizzazione, che si tradurrà in un controverso ciclo di industrializzazione senza rimuovere certe devianze, producendone altre. Le stesse conclusioni della Commissione di inchiesta parlamentare sui fenomeni di criminalità in Sardegna, dall’0ttobre del 1969 al marzo del 1972, relatore il parlamentare Ignazio Pirastu, si rivelarono sostanzialmente deludenti.

Il dibattito dei giorni scorsi ha avuto il pregio non comune, per le tematiche complesse affrontate, di attraversare i confini tra le varie discipline, per certi versi inesplorati, che spesso diventano barriere preclusive di un confronto più ampio e fruibile all’esterno. Di particolare stimolo l’approccio etologico, con l’analisi di psicologia animale sul sistema vendicatorio, riscontrabile peraltro in alcune colonie di primati. Nelle note introduttive, la stessa vicenda del cammello arabo che si ribella alla fatica ed alle vessazioni del suo giovane allevatore, richiamano il triste epilogo dei conducenti dei muli della Grande Guerra, scaraventati nelle gole profonde dai camminamenti in alta quota, per aver incitato oltre modo la bestia da soma impiegata nel trasporto dell’artiglieria da montagna. Una ribellione frutto dell’esasperazione di quel tragico conflitto che accomunava uomini ed animali in un destino ingrato quanto inedito. Un taglio alternativo troviamo nel saggio di Giuseppe Lorini: “Il linguaggio muto della vendetta”, che attraverso esempi di diritto popolare indaga sul concetto di vendetta, strettamente individuale. Siamo nel “Mondo dei Vinti” tra le Langhe, al confine tra il Piemonte e la Liguria, paesaggio suggestivo che ha incantato anche le streghe. Dove arrivano anche i sardi, i calabresi e i siciliani quando a Cuneo apre la Michelin e ad Alba la Ferrero. Si assottiglia e si sfrangia La Spoon river rurale del libro di Nuto Revelli, come ebbe a dire Corrado Stajano, dove dominano le “masche” mitiche figure femminili dell’immaginario contadino, foriere di prodigi o di eventi nefasti, costellati dalle “ciabre”. Per alcuni, goliardiche scampanate ai novelli sposi in età avanzata, per altri spedizioni punitive o riparatorie verso chi aveva insidiato l’illibatezza di giovani contadine. Un’usanza severamente proibita ma comunque assai praticata, che costituiva una forma di ribellione alla rigida morale cristiana imperante fin dal Medioevo. La vendetta contadina, una sorta di linciaggio morale, che poteva durare anche quaranta giorni filati, come la “ciabra” di Monforte d’Alba del 1946. Una variante la “bernà”: seminare di cenere o di calce la strada dalla chiesa alla dimora della persona ripudiata, causa della rottura di un fidanzamento o per aver convolato a nozze con un consorte diverso da quello prescelto. Nella versione cortei chiassosi si trovano riscontri, isolati per fortuna, anche in Sardegna fino agli anni Ottanta, ad esecrare insperati ricongiungimenti matrimoniali. Manifestazioni eccessivamente irridenti, talvolta sgradite, tanto da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. I ventitré articoli di Pigliaru sintetizzano un patrimonio normativo più ampio, mentre l’ambito geografico andrebbe principalmente circoscritto nella comunità pastorale di Orune.

“C’è una giustizia che travalica il principio di giustizia, c’è una razionalità che travalica la ragione”, un brocardo giapponese che richiama alla vendetta del samurai. Un comportamento dettato da una scelta individuale che nasce dall’animo, rapida, senza incertezze. Il diritto è la vendetta che rinuncia, incredibile ad una prima osservazione ma di autorevole fonte. Apparentemente inconfessabile ma veritiero: la vendetta e la giustizia a volte coincidono. Rincarando, spesso anche con l’ingiustizia. Concetti estremamente delicati sulla linea stretta di confine della cosiddetta legalità. Il processo, senza giudici, di Verona del 1944 contro i firmatari dell’ordine del giorno “Grandi” nella notte del Gran Consiglio del Fascismo, il 24 luglio 1943. Come ha ricordato il Professor Vincenzo Ferrari, insieme al sistema di carcerazione detentiva inaugurato nel 2002 nella base americana di Guantànamo dove sono relegati i presunti terroristi provenienti dall’Afganistan. Anche, la rappresaglia fuori e dentro le guerre o nelle trincee dei quartieri metropolitani. Il linciaggio organizzato, in auge fino agli anni Quaranta nel civilissimo Nord America, una forma di violenza collettiva tollerata, in contrapposizione alle sanzioni della Legge. In Italia, solo una norma del 5 settembre 1981 ha definitivamente abrogato il “delitto d’onore” del famoso art. 587 del vecchio codice penale. Tristi vicende del passato che si riverberano con accenti di innegabile pessimismo, senza indebolire la fiducia sulle capacità di rinnovamento della civiltà giuridica. Siamo quasi ossessionati dal tempo che farà domani mentre sorvoliamo sui cataclismi climatici che interessano da vicino il pianeta, ha sottolineato Professor Incampo. Come quando la vendetta si ripropone con allarmante frequenza, attraverso i conflitti multiculturali che impegnano da vicino i sistemi normativi del vecchio continente.

Ma l’analisi teorica non si è sottratta alla drammatica attualità di vicende ancora irrisolte, ispirate da esplicite dinamiche di vendetta: all’alba del 24 dicembre 1998 l’uccisione di don Graziano Muntoni. Nessuna breccia investigativa al di là dei probabili moventi come del resto in pieno giorno il 29 dicembre 2007, sempre nel centro di Orgosolo, per l’omicidio del poeta Peppino Marotto con il ritrovamento di altri due morti ammazzati appena dopo una settimana. Ma prima ancora a Lula, l’uccisione nel tardo pomeriggio del 25 novembre 2003 della giovane figlia di Matteo Boe, Luisa Manfredi, ancora senza un colpevole e non pochi problemi in sede istruttoria e di giudizio. Infine, l’8 maggio 2015: lo studente di Orune Gianluca Monni fulminato da tre fucilate mentre aspetta il pullman per il capoluogo nuorese. Un caso avviato verso una pronta soluzione che segna però il passo delle indagini in corso, anche per un altro coetaneo scomparso. La vendetta, un processo lento, inesorabile, ostinata come quella di Edmond Dantès del Conte di Montecristo, quasi come la scansione della parola di per sé atavica. Distante in apparenza dalla nostra cultura, dai comportamenti etici e religiosi ma senza soluzione di continuità.

Confortanti invece appaiono oggi, le considerazioni tra pensiero e parola di Antonio Pigliaru, su versanti non molto distanti dell’analisi barbaricina: “la fatica della parola scritta è la fatica del pensiero che cerca di chiarirsi e farsi trasparente a se medesimo, poiché la parola è corpo e non veste del pensiero” Una riflessione, quasi un monito di scottante attualità, nell’era della comunicazione in rete. In tema quindi l’intervento conclusivo di Celestino Tabasso, presidente dell’Associazione della stampa sarda. Oggi non occorrono dieci anni come a Ulisse per confezionare il diabolico piano del cavallo di legno. La vendetta ai tempi dei social media, viaggia veloce in bps – bit per secondo – sfrontata e spregiudicata, meno cruenta ma altrettanto dannosa e imprevedibile. Sul filo precario dei reati di diffamazione, sostituzione di persona e di violazione della privacy. La pubblicazione su Facebook della foto di uno dei presunti autori del pestaggio del povero Stefano Cucchi. La miccia corta della vendetta: “metto in rete chi mi insulta”, la risposta alle aggressioni, molestie e minacce di una nota giornalista subite nel profilo FB. Altrimenti, bastano 140 caratteri, un selfie, un’immagine compromettente, per giunta condivisa e l’irreparabile è compiuto. Una reputazione in frantumi con la vittima pressoché immobilizzata. L’intervento brillante del giornalista dell’Unione Sarda, ha riproposto esemplificando, le sequenze del film “I duellanti” di Ridley Scott, due ufficiali ussari della Grande Armée che si trascinano in un duello sfibrante nell’arco dell’avventura Napoleonica, fino al suo crepuscolo. Il più irriducibile sfidante sarà dichiarato morto da due colpi di pistola esplosi in aria dal più ragionevole contendente, come prevede il severo codice d’onore. Placando per sempre la sua arida sete di vendetta fino ad asciugarne l’anima. Se inverosimile che il perdono possa diventare una forma di vendetta, malgrado tutto, è auspicabile che trionfi la rivalsa della saggezza.

Era appena il 2002, quando nella fossa dell’Anfiteatro Romano di Cagliari, proprio a due passi, la voce chiara e limpida del baritono Carlo Guelfi intonava, sfidando l’umidità estiva: “Sì, vendetta tremenda vendetta . di punirti già l’ora s’affretta, fatale . come fulmin scagliato da Dio”. Tra il melodramma verdiano e il film, tratto da un racconto di Joseph Conrad, la rivalsa sembra addirittura la sua inefficacia. “Vendetta che inutile cosa!” concludeva Dino Buzzati in “Progressioni” nel suo “Il colombre”. In oltre quarant’anni di “nera” al Corriere della Sera ne aveva visto e scritto di tutti i colori. Ma non al punto di non continuare a studiarla. Come nella fattispecie!

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