L’ULTIMA ACCABADORA: E SE TRA LE FANTASIOSE TEORIE SU QUESTA FIGURA, ESISTESSE ANCORA UNA SIGNORA DELL’EUTANASIA?


di Mariella Cortès

A svegliarla, quella mattina, erano stati i latrati dei cani seguiti dalla voce consumata dal tempo di Antoni  che con la gola bruciata dal fumo tentava di mettere a tacere gli animali.

Era solo un’altra mattina per lei. Un altro giorno, uguale ai precedenti, che avrebbe passato in casa sino alle cinque del pomeriggio quando sarebbe uscita per la Messa per poi rientrare dopo aver magari acquistato qualcosa per una cena leggera e umile.  

Spostò la pesante coperta di  tessuto  grezzo dal suo corpo esile e lungo e si avvicinò alla piccola finestra circondata dalle travi ormai marce. Quella casa l’aveva ereditata dalla nonna che a sua volta l’aveva ricevuta in dote, insieme a tutto il necessario per adempiere il proprio mestiere, dalle antenate. Quelle pareti trasudavano storia, dolori e lacrime trattenute con la forza e la volontà di chi sapeva di avere un ruolo che avrebbe volentieri rifiutato.

Quando era piccola, la madre le raccontava sempre la storia de “is processiones”, le processioni dei morti: povere anime vestite di bianco che sfioravano con passi eterei il terreno e al cui passaggio nei giorni d’autunno le foglie secche tacevano. Quello era il segno a cui anche lei era stata destinata. Ma era passato così tanto tempo. Gli anni si erano accavallati e i ricordi sfumavano lontani nei tempi dell’infanzia. La sua professione si era ormai limitata a sussurri per le strade, sguardi e indici puntati contro come a dire: “sai chi è?”. Ora leggeva sui giornali di chi, su quelle come lei, scriveva libri, articoli e saggi.   Negli anni però altre cose avevano preso il sopravvento e la gente aveva smesso di cercarla. Ma lei non aveva certo dimenticato il passato.

Intanto, i suoi occhi ancora offuscati dalle poche ore di sonno, tentavano di scorgere al di là del vetro cosa  fosse successo. Voci indistinte si perdevano tra la fioca luce dell’alba invernale. Urla, lamenti tutto risuonava come un eco tra quel capannello di persone che aveva lasciato, ancora intorpidita, il riposo notturno prima del  solito. Antoni, nella magrezza del suo corpo cinto da jeans minuscoli e da una camicia troppo grande mal infilata sotto la cintura, stava riverso a terra privo di sensi.

Nel giro di qualche minuto arrivò un medico e l’uomo fu portato, tra le urla della moglie, in casa.

La vecchia donna spostò la tenda e coprì la finestra. Si avvicinò al comò e aprì il cassetto. All’interno frammenti di giornali di vario tipo parlavano di quelle come lei e della sua generazione. La definivano come una sorta di parca greca che si muove nel silenzio della notte e che con modi  ancestrali sempre uguali ripete a richiesta lo stesso gesto. Per quasi 100 anni nessuno aveva riparlato di loro. Ci si era limitati ai racconti e a relitti abbandonati nei musei dell’Isola quasi a voler nascondere una figura che apparteneva al passato.  Rileggendo quegli articoli, scritti dalle firme più disparate, rivedeva se stessa anni fa, e nelle sue orecchie risuonarono nuovamente i lamenti e le voci della madre,  della nonna e di tutti i parenti. Sin da piccola era stata abituata a un certo tipo di comportamento. Era, riservata, chiusa in una bellezza che era lentamente sfiorita negli anni nascosta sotto cappucci neri e costumi tipici colorati di scuro. Tutti la rispettavano quando passava per le strade, mai una parola inopportuna o più del necessario. Silenziosa e schiva, trascorreva le giornate in casa a fare le faccende domestiche o a leggere dei libri portati da uno zio che viaggiava.

Un giorno, intorno ai 20 anni, le diedero in dono dentro una sorta di forziere di legno, un oggetto di legno di olivastro lungo 40 centimetri e largo 20, con un manico che permetteva di impugnarlo senza esitazioni. Sapeva a cosa sarebbe servito quel regalo. La nonna stava per morire e lei avrebbe ereditato il mestiere di famiglia.  Così, col passare degli anni aveva fatto di ogni gesto, di ogni chiamata, quasi un qualcosa di ordinario e aveva imparato a rispettare i silenzi, il dolore e i lamenti.  Entrava nelle stanze in silenzio, vi lasciava il silenzio e salutava con poche parole.

Poi la modernità era corsa più veloce di lei facendo, più velocemente del previsto, dimenticare la sua figura.  Era invecchiata sola, senza nipoti o parenti stretti, facendo dei ricami alle vicine di casa e leggendo vecchi libri e giornali.

Si alzò dalla sedia, lasciando gli articoli sparsi sul comò e si avvicinò al lavabo. L’acqua fredda arrossò il suo viso rugoso e le illuminò gli occhi di un verde ormai spento e le labbra che un tempo erano color ciliegia.

Dopodiché scese in “su funnagu”, prese un po’ di legna e accese il fuoco. Passò qualche ora immobile, a riflettere guardando i raggi di luce che venivano dalla finestra sul lato giocare tra gli angoli, ridando vita a stralci di passato. C’era il mobile inciso dal nonno dove erano ancora conservati dei servizi di porcellana e dei vecchi libri ingialliti dal tempo e sulla parete erano rimasti i ritratti di alcuni membri della famiglia.

Tutto in quel giorno sembrava volerla portar indietro nel tempo. Le sue condizioni di salute si erano aggravate, non sopportava più il freddo e camminava poco.  Negli ultimi anni aveva sempre pensato che magari un giorno qualcuno si sarebbe ricordato di lei. E aveva paura. Ora, da quando i giornali avevano rimesso in gioco la sua storia, vedeva gli sguardi dei compaesani puntati contro di lei e i bambini  che prima la chiamavano nonna, ora la guardavano con terrore.

Eppure nella sua famiglia era tutto normale. Quasi un lavoro come un altro che dava consolazione a parenti e diretti interessati. Vedeva sempre negli occhi del malato un qualche cenno di tacita approvazione, seguito da un grazie silenzio.

Ma ora per quanto avesse vissuto anni spensierati, liberata da un fardello, negli ultimi mesi aveva cominciato nuovamente a sentire il peso degli anni e dei ricordi.

Si addormentò sulla vecchia poltrona rivestita con un tessuto floreale. Il fuoco lentamente si spense, lasciando la casa al buio. A svegliarla fu il toc toc della porta. Accese l’interruttore e lentamente andò verso l’ingresso. Era la moglie di Antoni che la pregava di fare l’ultimo favore.

Senza dir niente, s’accabadora si avvolse nel pesante scialle nero, aprì il mobile del nonno ed estrasse il cofanetto che ricevette in regalo anni prima e che recava ancora le impronte delle antenate. Lo nascose con cura sotto lo scialle e, chiusa la porta di casa, seguì la donna.

 

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