Miglior luogo per la mostra fotografica “Il Tempo sospeso”, autore Davide Virdis e Stefano Pia, non poteva essere trovata dagli organizzatori. Il complesso delle Murate di Firenze dove si è svolto l’evento, infatti, nel ‘400 era un monastero dedicato alla Santissima Annunziata e a Santa Caterina, fondato da dodici piissime donne fiorentine che si fecero murare dentro il primo complesso (da qui “Le murate”), conducendo nella preghiera una vita ascetica e contemplativa e vivendo di elemosina ein estremo disagio.
Soppresso il monastero nel 1808, l’edificio fu ristrutturato e,nel 1848, trasformato in un carcere maschile.
Negli anni della seconda guerra mondiale divenne tristemente noto come centro di carcerazione e di tortura di partigiani ed avversari al regime fascista. Comecarcere “le Murate” rimase attivo sino a metà degli anni ‘80, quando i detenuti presenti furono trasferiti nel nuovo carcere di “Sollicciano”.
Nel 1999, dopo un concorso internazionale, iniziarono i lavori di recupero divisi in più lotti su linee guida di Renzo Piano e su progetto dell’architetto Roberto Melosie del sardo Mauro Pittalis. Il progetto prevedeva che la grande struttura fosse destinata a diventare esempio di recupero da parte dell’Amministrazione pubblica, con spazi destinati ad abitazioni popolari e di socializzazione.
Il secondo lotto di recupero, dove si è svolta la mostra, interessava i tipici ballatoi dove si trovavano le celle, che sono state conservate con il loro complesso di catene, catenacci e chiavistelli.
In questa struttura, semiottagonale, dominata dalle ringhiere dei ballatoi, dove potevamo immaginare affacciarsi le guardie carcerarie e gli stessi carcerati, sono state disposte le quarantuno opere dei due autori. Tutte in bianco e nero, su pannelli di alluminio 40×60, che fortemente andavano a impattare con la struttura che trasmetteva sensazioni e visioni che facevano immaginare le mille voci che in passato caratterizzavano l’ambiente.
Le foto a colori, sei immagini di grande formato di Davide Virdis, erano invece poste all’interno del piccolo spazio – teatro, messo a disposizione dal Caffè Letterario “Le murate”, dove si è svolta l’introduzione all’inaugurazione vera e propria.
Nella sala, già affollata un’ora prima, ha preso la parola il presidente dell’Acsit Angelino Mereu, portando il saluto e il ringraziamento dell’Associazioni ai molti intervenuti.
Ha posto l’accento, come per lui e per molti dei presenti in sala, le foto di Virdis e Pia erano le proprie foto, perché raccontavano della loro vita, di come quei momenti e quelle sensazioni vissutequaranta anni fa e forse ripetute venti anni fa, non si siano mai esaurite. Non ci sono più i disagi di una volta: dal bianco e nero siamo passati al colore, e dal mal di mare siamo passati ai cocktail in piscina, ma quelle sensazioni legate alle traversate in nave permangono ancor oggi.
Il professor Pietro Clemente, professore universitario e antropologo, riportando anche lui note autobiografiche, ha ricordato la metafora di Gavino Ledda che “sintetizza” la distanza dei sardi dal mare e il loro sguardo legato alla terra. Il mare è l’orizzonte dell’alterità, della fuga o dell’incontro, della ricerca e della speranza, ma vissuto sempre come un male necessario, una dannazione dell’isolano. O vissuto come l’ostacolo al ritorno, il luogo che distanzia dal sogno del paese da cui si era partiti. Continuando con ironia e simpatia, il prof Clemente ha raccontato la sua carriera di “traghettato” alla soglia dei settanta anni. Se prima da giovane studente, dalla Sardegna, impiegava quattordici ore per andare a Cagliari, adesso impiega le stesse ore. Il discorso continua sulle note autobiografiche (e non potrebbe essere altrimenti) con racconti vissuti sin dall’età di cinque anni, quando non ti accorgi del tempo sospeso, per arrivare sino all’età attuale. A momenti di simpatica ilarità, ci sono anche momenti di seria riflessione quandosi pone l’accento che l’emigrazione è “dolore, nostalgia, il viaggio in nave come percorso di morte e di rinascita, è più forte nei viaggi in cui l’addio alla propria terra è definitivo e non è scelto”.
Clemente arriva così a parlare dei “riti di passaggio”, una specie d’iniziazione che il viaggio in maresu di una nave rappresenta, come “una lunga sospensione, una morte alla vita ordinaria, presi da una sopravvivenza elementare che solo qualche volta d’estate diventa‘vacanza’ e per lo più è attesa”. Partire è un po’ morire e per gli isolanipiù che per tutti gli altri un’iniziazione alla vita. La nave è un ventre profondo che assorbe le storie e le rigetta su nuove sponde perché ricomincino. E’ una sottrazione d’individualità, di responsabilità, in cui il singolo è sottoposto a un potere estraneo, a regole collettive. Ecco perché la nave come ventre della Balena di Pinocchio, “come luogo che ingoia e sospende le vite”.
Passando il microfono agli autori, Davide Virdis spiega il suo lavoro e la struttura con cui ha ideato la realizzazione della mostra: “ Nel giugno del 2012 ho partecipato al festival della Fotografia di Mogoro, in quella occasione Stefano Pia presentava una mostra sui viaggi in traghetto per la Sardegna. Vedendo il suo lavoro mi tornarono in mente alcune mie foto scattate sullo stesso tema agli inizi degli anni ‘90 e sempre rimaste in archivio.
Proposi a Stefano di unire i nostri lavori in un unico racconto che mettesse a confronto due generazioni di viaggiatori, parlai di questa mia idea conallora presidente dell’Acsit, e insieme lo trasformammo in un progetto di mostra…”
Il suo uso del colore per documentare le traversate più recenti (tutte realizzate durante il 2015), diventa la rappresentazione di un mutamento del suo punto di vista su un tema dal quale non si è in realtà mai staccato, grazie ad una sua regolare e costante pendolarità con l’isola,ma mai riaffrontato, fino a questo anno, con l’occhio del fotografo. A più di venti anni di distanza dalle altre immagini, queste ultime foto rappresentano un altro modo di viaggiare, come Virdis stesso dice:“…se nelle traversate di allora, caratterizzate dal monopolio della Tirrenia, ci sembrava di essere considerati come merce da trasportare, oggi non è più così. I collegamenti sono garantiti da più compagnie, le navi hanno da qualche tempo abbandonato l’uso del linoleum e la formica, caratterizzando i loro interni con ambienti più ospitali, accoglienti e colorati,offrendo l’illusione di partecipare a una piccola crociera. Il tempo passa tra moquette e velluti del salone bar, si ha musica dal vivo, dei ristoranti a tema, dei piccoli negozi, dove poter acquistare profumi e vestiti griffati. Per i viaggi diurni, nella giusta stagione, si può scegliere, infine, di passare una gratificante giornata in piscina.
Durante questi viaggi, nei periodi di flusso turistico intenso, spesso si ha l’impressione di essere in un cartone animato, non riuscendo a trovare un proprio ruolo, si cerca di salvarsi diventandone spettatore. Non ho avuto il minimo dubbio nel scegliere l’uso del colore per la realizzazione di queste immagini”.
La prima documentazione fotografica, è invece recuperata da un archivio; sono immagini realizzate tra il 1992 e il 1993, documento di un’esperienza passata. Nelle foto si legge la fatica, il disagio, la stanchezza, ma anche la curiosità, in alcuni casi la gioia di tornare verso gli affetti, ma anche il dolore di lasciare questi affetti, poi il distacco, il silenzio, essere isolati; il mare ovunque attorno a te. Ancor oggi, con la tecnologia, le “le tacche” spariscono dal telefonino: niente internet, niente web sino all’arrivo.“Si entra in un ‘tempo sospeso’, la superficie del traghetto diventa un piccolo mondo di relazioni obbligate, tra i naviganti nasce una sorta di solidarietà, di complicità istintiva, tanto veloce a crearsi quanto destinata a svanire prima dello sbarco, già durante la discesa ai garage”. Continua la descrizione con immagini parlate di famiglie che occupano con dignità il linoleum dei corridoi reso freddo dalla luce al neon, a marcare quel tempo sospeso che “negava anche il buio della notte”; le navi senza pinne stabilizzatrici e le onde diventavano piste di immaginarie montagne russe e ti facevano dire che questo è l’ultimo viaggio in nave… e poi l’arrivo in porto, il senso di liberazione. Il disagio passava. Ma tra quindici giorni ci sarebbe stato il ritorno.
Originale l’accostamento che Stefano Pia fa del traghetto: una grande piazza che mette insieme persone, sconosciute sino a quel momento, costringendole a momenti di condivisione di spazi e di tempo, personaggi di vario tipo, con cui s’inganna il tempo”sospeso”, e dove, l’autore, curioso ed indagatore si mimetizza per cogliere attimi e ed emozioni che provengono da questi ancor lunghi viaggi di “Onesti Naviganti”.
Riprendendo queste nostre prime righe, si capisce come gli organizzatori, non potevano trovare una location più consona e adatta che un ex carcere, dove quando si entra, si diventa “Naviganti” dove per traslazione il tempo “sospeso” non è il limite temporale per solcare un mare da un’isola al continente, e spesso è un passaggio, che a volte dura pochi anni a volte una vita, e in questa nave, a volte ci si conosce, ci si apprezza, c’è modo di riflettere a errori commessi e qualche volta si arriva sull’altra sponda, ma contrariamente alle nostre immagini, non c’è il desiderio ditornare indietro. Mentre da una parte c’è la condizione di migrante in cerca di migliorare la propria situazione economica e sociale e si contano le ore per raggiungere gli obbiettivi preposti, senza pena da scontare, dall’altra si contano le ore per tornare finalmente liberi, dopo aver scontato una pena che almeno sulla carta dovrebbe portare alla riabilitazione e al reinserimento nel contesto sociale. E da semplici Naviganti, si diventa “Onesti naviganti”.
Tra il pubblico, presenti rappresentanti di alcune Associazioni Culturali, fra cui Claudio Ascoli, attore e regista, e motore dell’Associazione “Chille de la Balanza” che ormai da oltre venti anni anima uno spazio vitale come l’Ex Manicomio di San Salvi, il quale ha avuto parole di apprezzamento sulla presentazione e sul tema della mostra stessa.
Quindi il pubblico, oltre 200 persone, sì è spostato nel semiottagono, dove erano esposte le opere dei due artisti.
Spettacolo nello spettacolo, in uno spazio di luci e ombre che ti portava a guardare in alto ea immaginare, cosa fino a qualche anno fa poteva accadere su quelle balaustre eringhiere che si rincorrevano verso l’alto. Tra una chiacchera, un pò di pecorino, pane carasau e cannonau, siamo arrivati alle 23.00 con le persone che sentivano il bisogno di raccontare, ricordare e ascoltare.
La mostra nata all’interno dell’Associazione Culturale Sardi in Toscana, ha avuto la possibilità di realizzarsi grazie al contributo della Fondazione Banco di Sardegna, con il patrocinio della Regione Autonoma della Sardegna, del Comune e della città Metropolitana di Firenze e della Federazione Associazioni Sarde in Italia. Grazie sempre al contributo della Fondazione Banco di Sardegna, è stato possibile realizzare un catalogo messo a disposizione dei soci e di chi ne farà richiesta.
L’organizzazione e la direzione, affidata a Davide Virdis, è stata eseguita in maniera autorevole e ammirevole, curata nei dettagli e nei particolari.
Dal 29 dicembre sino all’8 gennaio 2016 sarà visibile presso la sede dell’Associazione, in Piazza Santa Croce 19.
La mostra è stata ideata e pensata in modo che possa essere messa a disposizione di circoli e associazioni che ne faranno richiesta,accompagnata dal catalogo e da una piccola guida sul suo allestimento.