di Mario Salis
I “Mostri” 1963 di Dino Risi, pellicola numero 67 tra i cento film italiani che hanno profondamente inciso nella memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978, secondo un progetto nato all’interno della Mostra del Cinema di Venezia, che si avvale peraltro del sostegno del Ministero dei Beni Culturali. “Cari mostri”, due appuntamenti nel 2015 per la presentazione dell’ultimo libro di Stefano Benni nell’isola, dove lo scrittore da tanti anni è più di un semplice ed assiduo turista. Si tratta di un rapporto ravvicinato con la paura, degli spiacevoli incontri con l’assurdità quotidiana, sfiorandone appena il terrore con leggerezza ed eleganza. Nessuno e tanti punti in comune nel virtuoso e travagliato rapporto tra cinema e letteratura. Se ai mostri del boom, venti episodi a velocità variabile, bastano addirittura trenta secondi come per uno sketch, fu la risposta immediata alla crisi del filone del miracolo economico. Più tardi, il nuovo genere collettivo si dovrà fare in due ed anche in quattordici con i “Nuovi mostri” del 1977, di Mario Monicelli. In letteratura il genere dei racconti brevi non ha mai conosciuto seri problemi di sopravvivenza. Fin dall’Ottocento quando ancora si chiamavano novelle. Certo oggi forse si esagera un po’ troppo quanto si pretende di comprimerli dentro 1200 caratteri, spazi compresi, in non più di 20 righe. Per gridare al miracolo della prosa concitata nei fatidici 140 di twitter. Come al limite di una sfida: “si raggiunge la perfezione non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere”. Ne era convinto Antoine de Saint-Exupéry, autore de “Il Piccolo Principe”, che osava volando oltre le parole. I mostri di Benni nei suoi venticinque racconti rimangono tali finché la porta è chiusa ma diventano cari quando finalmente si spalanca per farne sorprendente conoscenza. Da quel momento non fanno più paura, suscitano addirittura tenerezza in bilico tra sprazzi di esilarante divertimento, sconcertante amarezza ed intrigante convivenza. Non c’è sempre una fiaba a lieto fine con draghi fumanti, streghe malvage, orchi minacciosi. L’inganno e la tentazione di vocine gentili e spietate, che sibilano come da una fessura di uno sportello pubblico che si accalca come il fantasma di una fila esasperata. Il suono implacabile di un risponditore automatico o dallo schermo infallibile di un bancomat, dove l’utente non ha sempre ragione, soprattutto se dimentica la password. Peggio ancora in rete, quando è dichiarato irrimediabilmente sprovvisto di account. A sua insaputa corre il rischio di vedersi scollegato. Al duro prezzo della vita stessa, come nel caso del signor Zefiro, sgomento protagonista, manco a dirlo, di “Numeri”. Se Gianluigi Rondi sul film di Risi sosteneva che i mostri ce li aveva già raccontati Fellini nella Dolce vita, nel racconto “Verso casa” di Benni il panico ci prende quasi per mano mentre si cammina da tempo senza riuscire a tornare a casa, magari dopo esserci dimenticati, senza volerlo ammettere, dove abbiamo parcheggiato. Sembra di immaginare il nonno di Titta di Amarcord, quando si perde nella nebbia appena fuori dal suo cancello. L’esangue Dimitri Nosferatti, vampiro sull’orlo quasi della quiescenza, svuotato dei suoi orridi misteri difronte ad un funzionario di Equitalia, non meno terribile. Oppure, l’ingratitudine interconnessa di Hansel@Gretel.com, quando sovvertono il destino fiabesco tornando salvi e ricchi fuori dal bosco. Il “Lupo” riesce sempre a farci sorridere e riflettere come in chiusura di ogni racconto.
Nel vortice grottesco delle maschere animate dai mattatori indiscussi Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, in fondo si nutriva la speranza di non vederle trasformate nei deprecabili costumi che durano ancora a morire. Il cinema di quegli anni che aveva bisogno di dimenticare tutto molto presto forse non pensava di scrivere una storia così diversa. I Cari mostri invece, vivranno a lungo o si dissolveranno per sempre appena si aprirà la porta? Stefano Benni ha qualche idea in proposito, o meglio una speranza. La crudeltà della diretta televisiva pervade la nostra quotidianità, comprimendo i tempi di reazione per far crescere la paura. Il libro può essere un antidoto efficace perché ci lascia il tempo giusto per aprire la porta: vedere, giudicare, eventualmente reagire. Anche senza paura. Ma soprattutto non diventare mostri noi stessi. I libri si possono ancora giovare del proprio tempo a discapito della velocità dell’informazione che corre troppo veloce, generando talvolta i veri mostri, e non solo quelli in prima pagina.
Scrittura asciugata, come sintesi, pulizia, essenzialità. La regola, quasi sempre la stessa: risposte brevi quanto basta per rendere un’idea, offrirci un’opportunità di immaginazione e riflessione. Come quelle di Stefano Benni. Nel libro invece con qualche pagina in più. Tutte da leggere.
I mostri Dino Risi 1963, quelli a porte aperte. Stefano Benni Cari mostri, a porte chiuse, nel frattempo sono diventati più simpatici? Sono sempre più o meno gli stessi, magari con un po’ più di soldi.
Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno. Chi c’è oggi dietro quella porta? Il potere, che ama essere sempre più invisibile .
I numeri del signor Zefiro, Hansel@Gretel.com: si vive attaccati alle macchine per vivere e per competere, così alla fine per prolungare la vita. Come convivere con la tecnologia? Capendo quando migliora la nostra vita e quando invece crea dipendenza, o la complica inutilmente, o addirittura ci fa del male. Come per ogni invenzione, bisogna essere attenti e critici.
Una delle accuse all’informazione di oggi è di raccontare troppe storie e poche verità. Serve ancora raccontarle? La letteratura ha una sua verità, che non è quella della politica o dell’economia. È una verità che da più dubbi che certezze quindi è più che mai necessaria.
A proposito di mostri o qualcosa di simile. Chi era Conche e Ferru, è ancora dietro la porta? Era una pescatore. È vecchio ma sta bene. È un burbero dolcissimo.