Sono in ritardo, dice al telefono. Ho avuto un contrattempo in campagna. Se non disturba porto un amico. Quando arrivano sono quasi le venti. Noi diciamo le otto. Di sera. E’ già quasi buio e ha fatto più di quaranta chilometri per venire in paese. Ma ci tiene molto. Vuole allenarsi, vuole allenare la voce. Ha detto. Per cantare da lì a qualche giorno, in gara. Salutano cortesemente gli altri amici già arrivati. Che li aspettano per iniziare. Presenta il giovane amico che lo accompagna. Canta anche lui, dice agli altri che non lo conoscono. Prende in mano immediatamente una chitarra appoggiata su di una poltrona. Ed inizia a suonare. E a cantare. Senza esitazione.
Boghe melodiosa, ‘enzo a cantare a inoghe, cherzo nessi sa oghe, intendas cando reposas.
La sua voce risuona in tutta la casa. Scendo a sentire. Mi metto ad osservarli, seduta in un angolo, sui gradini delle scale. Sono tutti maschi. Non si sono accorti della mia presenza. Tanto meglio.
Gli anziani del vicinato si dicono tra loro ‘cantigos sun faghinde!’. Le donne ricordano quando quei bei canti erano rivolti a loro, da ragazze, dai giovanotti del paese e dall’amato. Ses Venere famosa, de sas deas sa pius bella. Ses dae chelu falada, a terra pro dare calma. Nel frattempo è arrivato qualcun altro, attirato dalla melodia che si spande nelle stradine acciottolate intorno. La porta è aperta. I lampioni nella strada emanano un bagliore giallastro.
Vestono jeans skinny Armani, maglioncini leggeri ed attillati. Scarpe in tela bianche leggere, sneakers Birkenberg. Capelli alla moda. Smartphone che spunta dalla tasca dei jeans. Sono giovani, non sentono che inizia a fare freddo. Penso. Bevono molta acqua e pochissimo vino. Dobbiamo guidare, poi, dicono. Osservo le loro mani. Sono mani di giovani che lavorano in campagna. Cerco di seguire i testi dei canti, e non sempre li capisco. Ma cantano meravigliosamente. Si tenio vida redenta, solu de amore ferida, mi pare che dica. Forse questo è un canto in Re, antico. Mi basta. Ascolto.
Guardo loro e la serietà di quella concentrazione. Chi sono, come vivono, cosa pensano?
Questa voce esce da un fisico possente. E’ alto, ha spalle e torace scolpiti. Sicuramente si allena in palestra. Pare che sia molto utile per l’impostazione della voce. Ha poco più che vent’anni. A cena, sul tardi, dirà che gli piacerebbe prendere una laurea. In filosofia. Ma gli sembra una strada ardua. Sorride. So che ha una fidanzata bella. Figlia di un commerciante tunisino stabilizzato nella zona dove vive. Di cui è molto innamorato. L’integrazione culturale e multietnica è anche un fatto d’amore, una questione semplice, alla fine, penso. Sa dulze malinconia, sa oghe sua lontana, a su sonu de sa campana, ispiccat s’Ave Maria.
Mi informano che il ragazzo più piccoletto sia parente di cantatori già famosi. Lui ha unu trazzuparticolare, canta con il cuore e non di potenza, mi dice all’orecchio uno degli anziani che lo ascolta con molta attenzione. Anche lui è cantadore, per cui devo crederci. E sprona il figlio ad inserirsi nel gruppo, con cenni del capo e incitazioni con lo sguardo. Se non provi e non competi non impari, gli dice piano. Ma lui è intimorito dalla bravura dei compagni. Poi, alla fine, ci prova. Funziona così, mi dice il padre, bisogna provare.
Che canto è questo, chiedo. Una Nuoresa, mi rispondono. Annuisco. Li osservo mentre si alternano nelle voci. Sono concentrati, giovanissimi, appassionati di roba da vecchi. Di roba antica, che nulla ha a che fare con l’altro mondo. Quello dei loro coetanei. Della città. Pare che siano in molti, nella zona, appassionati di questa roba qua. Si riuniscono a cantare tra maschi. In feste, in cantine, in gare. A cantare a s’antiga. Cantigos vari. Sono Cantadores e sono giovani. Ormai è molto tardi. Tolgo il disturbo e mi allontano. Li ascolto da lontano mentre continuano a cantare, senza sosta.
Giovani postmoderni e identitari. L’identità è il legante. Corpo, cultura, forse religione, sicuramente canto. Giovani dentro una società terziarizzata, nella quale il cattivo capitalismo con i suoi artifizi finanziari mondiali, li considera effetti collaterali. Dove convivono modelli produttivi vecchi insieme a quelli recenti, smantellati. In un tempo accorciato da sistemi di comunicazione tecnologica.
In uno spazio continuamente costruito e ricostruito da bombardamenti di immagini globalizzate che rimbalzano dentro il loro splendido paesaggio rurale. Una società nella quale le istituzioni sono spettacolarizzate e l’esistenza stessa secolarizzata. Romantici e affettivamente precari. Non sembrano choosy, né bamboccioni, né mammoni. Neppure alienati. Sono figli di una generazione intermedia tra i nativi digitali, ed anche sfortunata. I tassi di disoccupazione altissimi li vivono sulla loro pelle. Nei loro paesi si fa prima a contare chi lavora, tra i giovani. Gli altri se ne vanno. Le zone interne sono il loro mondo, su cui si è costruito il loro primo perimetro cognitivo.
Rosa chi meraviglias e incantas Collinas e ridentes pianuras
Rosa chi perennizzas e ammantas Sas alvures de forzas e friscura
Rosa chi chelu e mare ispantas e superas dogni atera bellura
Intonano un altro Canto in Re, un Mi e La, una Nuoresa. Una Disisperada per chiudere la serata, come detta il copione. Il resto è altro. Sembrano felici.
Ps: i giovani Cantadores sono Franco Figos di Giave e Danilo Denanni di Chiaramonti
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