FOLKLORE: IL MONDO PARALLELO DELLA CULTURA SARDA

immagine di Ferdinando Longhi


di Omar Onnis

La Sardegna produce molta cultura a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, dalla musica all’arte, dalla letteratura al cinema, ecc. È un dato ormai accertato, ma non definitivamente acquisito né compiutamente studiato. C’è tuttavia una sorta di cenerentola della nostra produzione culturale, negletta e possibilmente tenuta in disparte, ma capace di trasformarsi in una bella principessa, all’occorrenza. È il nostro folklore.

Ora, dire “folklore”, mi rendo conto, è pericoloso o come minimo fuorviante. Nell’ambito culturale italiano folklore è sinonimo di posticcio, di artefatto, di dilettantesco; quando va bene, di mera rappresentazione di pratiche musicali e coreutiche popolari ormai morte e sepolte, prive di qualsiasi rilevanza estetica o semantica.

Anche in Sardegna ha preso piede questa accezione del termine ed anche in Sardegna l’ambito intellettuale ufficiale, nonché i mass media e le istituzioni, hanno da tempo assunto tale punto di vista verso le manifestazioni di cultura popolare nostrane. Le si considera una riproposizione stereotipata di pratiche grosso modo tradizionali (quindi non moderne, arretrate), senza collegamenti con la nostra contemporaneità, né alcuna vera rilevanza culturale. Rappresentano anche la sede riconosciuta dell’uso del sardo e delle altre lingue storiche isolane, minorizzate e folklorizzate a loro volta.

Non è un caso se la nostra cultura, nelle sue espressioni ritenute “tipiche” o tradizionali, sia finita in questo ghetto. Il processo di modernizzazione della Sardegna, forzato e attuato con modalità coloniali, ha prodotto inevitabilmente anche questo esito. All’interno di tali dinamiche le nostre tradizioni popolari si sono barcamenate tra le mode del momento, i nuovi mass media, i gusti, le pratiche di consumo, con alterne fortune.

Il sardismo e tutto l’apparato mitologico e simbolico su cui esso si basa non ha contestato tale ghettizzazione, ma l’ha assunta come fondante e come “vera”, semplicemente cambiandola di segno, provando a rivendicare come buono e simbolicamente forte ciò che era stato schematizzato e irregimentato per essere sminuito.

Naturalmente questo genere di processi, quando toccano fattori culturali e sociali profondi, non riescono ad avere un andamento lineare ed è sempre in agguato una sorta di eterogenesi dei fini. Così, la folklorizzazione di tutto il nostro patrimonio demo-antropologico ha sì escluso dall’ambito della cultura “alta” la gran parte della nostra produzione culturale autoctona (ossia non replicante in modo passivo modelli di importazione), ma in un certo senso l’ha anche perpetuata, dandole una nuova possibilità di esistenza.

Fortunatamente i nostri modernizzatori (compresi i suoi agenti locali, cioè la nostra sedicente classe dirigente contemporanea) non hanno mai capito nulla della Sardegna e dei Sardi. Per questo è stato così facile fargliela in barba e ritrovarci oggi, nel XXI secolo ormai inoltrato, con schiere di sardi che si dedicano al canto, alla musica, al ballo così come recepiti dalla trasmissione intergenerazionale nell’ultimo secolo, e nel contempo alla loro contaminazione, alla loro rielaborazione alla luce dei nuovi gusti e dei nuovi media, senza che questo abbia arrecato danno alcuno né alle espressioni di matrice tradizionale né alle produzioni legate a modelli esterni, anzi vivificando entrambi gli ambiti.

Quello che vorrei sottolineare, in questo caso, non è tanto la constatazione della forza della nostra creatività popolare, quanto l’assurdità del persistente ostracismo che essa deve ancora patire da parte del potere istituzionalizzato e della cultura accademica.

Non in termini assoluti, per fortuna. Qualche ambito, come la musica, ha avuto negli anni riconoscimenti (prima di tutto esterni) che l’hanno salvata dalla sua folklorizzazione e ne hanno fatto una forma di espressione riconosciuta a livello internazionale, per la sua complessità ed espressività. Canto a tenore e launeddas continuano a stupire gli ascoltatori in tutto il mondo e a suscitare curiosità e studio anche molto lontano dalla Sardegna.

In altri ambiti non c’è stata la stessa cura e la stessa “riscoperta” virtuosa, ma è sempre vivo l’interesse spontaneo delle persone. Basti pensare alla facilità con cui ci si imbatte in cerchi danzanti in ogni occasione, anche estemporanea, in cui ciò sia possibile, in privato e in pubblico.

Ciò significa che non si tratta di mero folklore, in senso italiano. Siamo in presenza di usi e forme di espressione ancora vivi, concepiti come propri anche dalle nuove generazioni, che ne partecipano con la stessa disinvoltura con cui fruiscono o praticano le forme musicali odierne, di importazione, o usano i mezzi tecnologici più sofisticati.

C’è anche un aspetto sociale (e sociologico) in questo fenomeno. Migliaia e migliaia di sardi di tutte le età dedicano tempo ed energie a prove, incontri, esibizioni in pubblico, organizzazione di eventi, ecc. Spesso in comunità che, per la maggior parte, sono piccole o piccolissime e non godono di servizi, opportunità di distrazione e divertimento paragonabili a quelle offerte dai centri più grandi. Ed anche in questi ultimi tutto sommato l’associazionismo folklorico ha un peso ancora notevole.

Ignorarlo, considerare questo fenomeno come un residuato del passato o tutt’al più una sorta di risorsa pubblicitaria a buon mercato, da sbandierare davanti al potente buana di turno, salvo poi vergognarsene, è un tipico atteggiamento da colonizzati. Che poi è lo stesso che vediamo dominare la scena a proposito della lingua sarda. Lo stigma e la vergogna di noi stessi sono stati interiorizzati in profondità dalla nostra classe dominante e vengono replicati in modo spontaneo. Solo il radicamento, la profondità della nostra stratificazione culturale hanno consentito a molte delle sue forme di sopravvivere in ambiente ostile. Mimetizzandosi, accettando all’occorrenza di essere relegate nel folklore, ma sempre riproducendosi e rilanciandosi, a dispetto del mutare dei gusti e delle mode.

Si tratta di un fattore anche economico, a conti fatti, se visto nell’ottica produttivista e commerciale imperante. Solo che è un’ottica che funziona un po’ a intermittenza, evidentemente. Così un gigantesco patrimonio di saperi pratici e teorici, di produzione artigiana, di socializzazione virtuosa resta ai margini della politica culturale, resta escluso dalla cura e dal riconoscimento che invece chi governa la cosa pubblica dovrebbe garantire alle nostre risorse collettive più preziose.

Abituati come siamo a pensare che in Sardegna non ci sia nulla, non riusciamo nemmeno a vedere la bellezza e la ricchezza di cui disponiamo. Bellezza e ricchezza che esportiamo e che sono oggetto di ammirazione incredula ovunque se ne venga a conoscenza, per altro. Ma questo non basta a chi deve mantenere la Sardegna soggetta e dipendente. Anzi, costituisce una minaccia.

Questa in fondo è l’ennesima prova di quale grado di deprivazione e di annullamento di sé possa raggiungere la subalternità politica e culturale, quella che vediamo agire a proposito di servitù militari, di carenze infrastrutturali, di inquinamento, di povertà crescente e di spopolamento. Fa tutto parte dello stesso gioco a perdere. Esito al quale, però, come dimostra la stessa forza vitale delle nostre tradizioni popolari, non siamo affatto condannati.

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