di Veronica Secci
Francesco Serra ha 21 anni, vive a Monserrato e studia Scienze Politiche. Da tre anni ormai, però, passa l’estate in maniera differente rispetto a gran parte dei suoi coetanei, dedicandone buona parte ad attività di volontariato che lo portano accanto a gruppi di sorridenti bambini peruviani.
Come sei arrivato a vivere un’esperienza di questo tipo? Mi sono avvicinato al volontariato attraverso i gesuiti, e la mia prima esperienza è stata in occasione del terremoto in Emilia-Romagna, quando ho preso parte a un campo organizzato per i più piccoli, ritrovatisi improvvisamente senza scuole né spazi. Quello che avevo apprezzato già allora, dei gesuiti, è la libertà che concedono, un fattore non da poco quando si ha a che fare con dei religiosi, e che – mancando – spesso porta a sentirsi a disagio. In quest’occasione, poi, una mia amica e compagna di viaggio – che già aveva fatto con loro l’esperienza, prendendo parte ai progetti ideati dalla LMS (Lega Missionaria Studenti) – mi ha parlato dei campi in Perù, e quando anche io mi sono sentito pronto a vivere qualcosa di più grande, ho deciso di organizzarmi: il primo campo è stato nell’estate della maturità.
Quale è stata la situazione che ti sei trovato davanti? I progetti attivi nella zona sono diversi: c’è anzitutto la casa famiglia – una struttura con una storia molto complessa, nata grazie alla tenacia di una pedagogista peruviana e al sostegno dei gesuiti, oggi funzionale grazie a finanziamenti di una ONLUS italiana, la Compagnia del Perù – e due progetti esterni, più complessi, in zone periferiche e arretrate. In entrambi i contesti mi sono occupato di lavorare con i più piccoli: un lavoro prettamente educativo nel primo caso, semplificato dal fatto che si tratta di bambini seguiti da educatori competenti ventiquattro ore al giorno, ma più difficile nelle zone di periferia, dove si ha a che fare con nuclei familiari che – durante l’anno – possono essere visitati dagli educatori dal centro non più di una volta alla settimana, e da qui il motivo per cui è necessario fare i conti con una situazione più indisciplinata.
Una situazione difficile e diversa da quella che tutti i giorni vivi qui. Qual è la cosa che colpisce di più? La forza della disparità. In dieci minuti di pullman ti ritrovi a passare dal centro della capitale – moderna, pulita e commerciale – ad agglomerati di baracche fatte da due travi e un po’ di paglia. È un qualcosa che ancora non riesco a concepire: anche qui esistono le differenze sociali ed economiche, ma questo non viene ostentato in maniera così forte. Mi viene in mente un episodio emblematico: durante lo spostamento dalla città a un quartiere periferico, io e il mio gruppo siamo passati in una strada costeggiata su entrambi i lati da camposanti. Uno monumentale e bellissimo, l’altro – esattamente di fronte – ridotto a poco più di un campo, di colore sgradevole, con le sole croci in legno: la differenza fra ricchi e poveri.
Geograficamente vicini, ma socialmente distanti. Esiste, fra i locali, la percezione di una tale differenza? In un certo senso sì. I più poveri provengono dai villaggi pre-civilizzati della foresta, e nel momento in cui scelgono di trasferirsi in città, sono consapevoli del loro livello di inferiorità iniziale, e più o meno lo accettano. Si tratta di un’integrazione difficile, aggravata dal fatto che mentre nel centro si parla spagnolo, mentre la lingua della selva è il quechua. Ed è una differenza esaltata perfino dalla fisionomia.
Un mese in una realtà tanto complessa: pensi sia un’esperienza adatta a tutti? Sì, purché sia graduale: meglio avvicinarsi al volontariato pian piano, imparando a cogliere le problematiche e i meccanismi a partire dalle situazioni più vicine, e soprattutto a capire che si deve essere pronti a cambi di programma continui. Questo, soprattutto per evitare il vero e proprio shock culturale, che è fortissimo e inevitabile quando lo spostamento è notevole.
Cosa lasciano, queste esperienze? E, soprattutto, sei intenzionato a ripeterle? A me hanno lasciato addosso una grande consapevolezza, che mi ha reso capace di apprezzare fino in fondo quelle cose che prima vedevo quasi come insignificanti. E sì, continuerò senz’altro a seguire questi progetti.
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