nella foto scattata nella sede del circolo sardo di Vimodrone, da sinistra: Paolo Pulina, Carlo Casula, Fiorenzo Caterini
di Paolo Pulina
A Vimodrone (MI), nel pomeriggio di sabato 14 novembre 2015, presso la sede sociale, il Centro Sardo “La Quercia”, presieduto da Carlo Casula Pinna, ha organizzato la presentazione del volume di Fiorenzo Caterini “Colpi di scure e sensi di colpa: storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi” (Sassari, Carlo Delfino, 2013, pagine 286).
«Questo libro – ci dice la scheda editoriale – ripercorre gli anni del disboscamento della Sardegna grazie ad un lavoro interdisciplinare che vaglia i dati statistici, le testimonianze dell´epoca, i documenti, gli aspetti politici, economici, sociali e antropologici, i pareri degli esperti, in particolare dei botanici e dei naturalisti».
All’autore, che la ha efficacemente argomentata nell’incontro di Vimodrone, piace la sintesi seguente: la Sardegna entra nell’Ottocento ricca di boschi e ne esce trasformata, arida e povera, a causa di un disboscamento iniziato nei primi decenni, caratterizzato da un picco di intensità negli anni ’50, proseguito per un intero secolo.
Scrive Caterini: «La distruzione delle foreste sarde è documentata dalle statistiche, tra cui quelle ufficiali del Ministero dell’Agricoltura. Nel 1855 la superficie boschiva era scesa a 306 mila ettari, dai 480 mila degli anni ’20, rilevata da Vittorio Angius. Nel 1883 la superficie forestale della Sardegna risultò essere di 113 mila ettari. In definitiva, nel giro di un secolo, la superficie forestale della Sardegna si ridusse di almeno quattro quinti». Ricordiamo che l’Angius (Cagliari, 1797 – Torino, 1862) è stato un presbitero, scrittore, giornalista, storico e politico, noto soprattutto per la collaborazione con Goffredo Casalis per il monumentale “Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna”: «In maniera metodica e sistemica – come scrive Caterini – Angius descrisse, con l’aiuto di corrispondenti locali, tutti i paesi dell’isola di Sardegna, mettendo in evidenza di ciascuno le caratteristiche geografiche e storiche, con eccezionale dovizia di particolari».
Caterini (50 anni, cagliaritano d’origine ma residente a Tempio Pausania, Ispettore del Corpo Forestale e Vigilanza Ambientale, ha ricoperto per anni l’incarico di responsabile della Sezione di Polizia Giudiziaria presso la Procura della Repubblica di Tempio Pausania, dove ha condotto numerose inchieste giudiziarie di natura urbanistica, paesaggistica, ambientale) ha confessato che la sua ricerca è cominciata da un’epifania: inerpicatosi un giorno dal mare sopra un roccione, attorno a degli stazzi abbandonati, dove sembrava che il tempo si fosse fermato, scopre un boschetto di piante gigantesche, proprio quelle descritte dall’Angius per quel territorio. Trova in un racconto del 1905 di Grazia Deledda “Colpi di scure”, suggestivo fin nel titolo (non a caso Caterini lo ha preso in prestito per l’intitolazione del suo libro), il riferimento a «squadre di carbonari e di scorzini che abbattono le piante millenarie, e di giorno in giorno si avvicinano al cuore della foresta, all’elce enorme sotto la quale il pastore ha stabilito il suo domicilio e appese le sue armi». Ed ecco perché «in fondo al bosco s’odono ininterrotti colpi di scure, ripetuti dall’eco, e pare che tutta la foresta ne tremi».
Angius e la Deledda e tanti altri – storici, viaggiatori, letterati – sono testimoni concordi nel fornire i dati che dimostrano che nell’Ottocento la Sardegna non era per natura una terra arida come si vorrebbe far credere proiettando nel passato le immagini della deprivazione boschiva di oggi. Peraltro ci danno indizi sulla presenza in determinati luoghi di ampi manti forestali anche i toponimi vegetali così come, in generale, i dati oggettivi della scomparsa in Sardegna di alcune specie animali che vivono nel bosco (il cervo, per esempio) o l’indiscutibile crollo dell’allevamento dei suini (la cui alimentazione non può prescindere dalla presenza in grande quantità delle ghiande e quindi degli alberi che le producono a costo zero). Tutti questi dati di realtà incontrovertibile dovrebbero impedire una volta per tutte di confinare il disboscamento nell’ambito della mitologia, nel regno della favolistica non degna di considerazione dal punto di vista storico.
Altra domanda che bisogna porsi: chi è il colpevole del disboscamento? Per molti la risposta è semplice: sono stati i pastori e i contadini. Niente però è più sbagliato – si “inalbera” Caterini – perché i pastori e i contadini sardi in realtà hanno reagito contro la privatizzazione delle terre (editto delle chiudende) e la distruzione dei boschi che toglieva loro ben conosciuti usi collettivi (a cominciare dal legnatico) e questo atteggiamento è in linea con quanto emerge dagli studi degli antropologi, che ci insegnano che le società tradizionali non distruggono il nativo ambiente naturale.
Si scambia l’effetto per la causa: gli ampi spazi del disboscamento sono stati occupati dai pascoli per gli ovini perché il “potere forte” costituito dalla borghesia sarda legata al Piemonte ha visto nella distruzione dei boschi, quindi nel commercio dei preziosi legni derivati (per le costruzioni navali, per le traversine delle nascenti ferrovie, e – cosa meno nota – per le impalcature delle gallerie delle miniere), occasione di arricchimento sostanzioso e non effimero.
I baroni spagnoli avevano sicuramente sfruttato a fondo i loro sudditi ma avevano rispettato i boschi come luogo di usi civici e come “riserva energetica” per diverse funzioni di protezione del territorio. Quando ai baroni, compensati a peso d’oro, subentrarono i piemontesi – ha scritto Giovanni Maria Lei-Spano – «lo scempio che nella seconda metà dell’Ottocento si fece dei nostri boschi di leccio e più di quercia da sughero per carbonizzare e per uso industriale fu addirittura orrendo e selvaggio. […] Gli speculatori, fruendo della connivenza delle amministrazioni pubbliche di allora, sia demaniali che comunali, ch’erano in possesso delle terre boschive, addormentavano gli interessi con anticipi sul futuro taglio, per avere a prezzo vile immense estensioni di bosco, sparito il quale il terreno rimaneva privo di valore. La carbonizzazione arricchì i forestieri: a noi è rimasto il danno e la vergogna». (Giovanni Maria Lei-Spano, nato a Ploaghe nel 1872, morto nel 1935 a Milano, è autore, tra l’altro, di una importante opera “La questione sarda”, pubblicata nel 1922, a Torino, con una positiva prefazione di Luigi Einaudi. Sullo «scempio» dei boschi sardi non si può non citare anche il romanzo “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì).
Su questi terreni «privi di valore», resi infertili dalla carbonizzazione, si è così insediata una macchia mediterranea assolutamente non naturale (come sembrò a Maurice Le Lannou, eminente geografo ma non botanico) ma conseguenza del sistematico sfruttamento operato dagli interventi degli uomini interessati ai guadagni prodotti dalla commercializzazione del prezioso legname.
Prima del disboscamento esisteva in Sardegna una convivenza e integrazione tra gli allevamenti vaccini, suini, caprini e ovini; dopo il disboscamento, e quindi la creazione di ampi spazi per i pascoli, la pastorizia – cioè l’attività produttiva che tutti gli studiosi di economia, i quali auspicavano l’uscita dall’arretratezza con la creazione di fattorie agricole, consideravano la nemica dello sviluppo – ha invaso i territori delle campagne.
Produrre formaggio da quel punto ha voluto dire confrontarsi con il mercato mondiale, pagando naturalmente un prezzo per cui oggi il 90% del pecorino romano, anche se prodotto in Sardegna, nella denominazione non può fregiarsi dell’indicazione di questa origine.
In chiusura del suo intervento Caterini si è soffermato sui temi teorici che più lo affascinano, anche come studioso di antropologia culturale. Dietro la storia dei boschi, nel mondo, c’è la storia dell’umanità. Ma l’uomo, disinteressato rispetto alla lezione della storia, ha perduto il rapporto con il bosco (la natura) ed è diventato incapace di riconoscere le proprie risorse. Perciò è indispensabile che l’uomo recuperi un rapporto di amore con il bosco perché ne trarrebbe vantaggi sia in senso funzionale (per le utilità che gliene possono venire) sia in senso simbolico (il bosco è il più grande produttore di simboli, di magie, di immagini archetipiche).
Nota finale. È stato questo per Fiorenzo Caterini il secondo incontro con la realtà di un Circolo culturale di emigrati sardi. Dopo Concorezzo, per una iniziativa sui sapori regionali promossa dal Circolo presieduto da Salvatore Carta, Vimodrone. Qui l’entusiasmo del presidente Casula Pinna e di tutti i membri del Direttivo, reduci da una importante partecipazione attiva alla recente edizione di BookCity (presentazione del libro di Giovanni Fancello “Sabores de Mejlogu”), ha impressionato positivamente Caterini, che si è complimentato per la meritoria e continuativa promozione del prodotto-Sardegna operata dai volontari dei Circoli sardi.