Si fa presto a dire Expo. Chi l’ha provato una volta (parlo di quello milanese) non ci rimette piede neanche da morto. Sarà che domenica 13 Giove pluvio aveva deciso di farsi sentire con una cascata di pioggia battente che pareva non avere fine (in realtà al primo pomeriggio l’avrebbe finalmente piantata lì), lasciando senza copertura alcuna le code davvero interminabili ( si parla di due, tre ore di fila) dei testardi che a tutti i costi volevano sapere dei misteri del padiglione Italia o di quello Kazako, le meraviglie celate dal Giappone, le dune dei favolosi Emirati Arabi. Dicono le cronache del cittadino “Corriere della sera”che in quel giorno si aggiravano pei padiglioni del decumano qualcosa come duecentomila persone. E un bel po’ di queste erano sardi. Venuti da Torino e Vicenza e da tutti i paesini e città di Lombardia, Milano compresa ovviamente, per un’inedita “Die de sa Sardigna”, che questa settimana è stata quella dell’Isola nostra, dentro e fuori i cancelli sorvegliatissimi dell’esposizione universale: cibo sardo per tutti ai chiostri di San Barnaba, con vino che scorreva davvero a fiumi, film di registi sardi al cinema “Beltrade” ( a gratis), la prestigiosa mostra sulla civiltà nuragica al museo Archeologico, coi giganti di Mont’e Prama a fare da padrini a ogni evento, in spirito tridimensionale e virtuale, come è d’uso di questi tempi digitali. Pure io vestivo “alla sarda”, corpetto di vellutino nero su camicia bianca candida, calzoni calze e scarpe neri, che “Sa Oghe de su coro”, su invito della Fasi, federazione delle associazioni sarde italiane, presidentessa Serafina Mascia, avrebbe cantato nel pomeriggio, dopo la sfilata dei centosessanta “figuranti” in costume , una replica in minore di un primo maggio cagliaritano senza la statua di Sant’Efisio. Il coro che dirige Pino Martini Obinu ( i suoi sono di Carbonia e Paulilatino, lui ha casa a Seneghe, campa la vita insegnando nelle scuole di Milano) è davvero meticcio, ci sono sardi, figli di sardi ma anche lombardi e pugliesi, Svetlana poi è bulgara e con lei ci scambiamo le notizie provenienti dal circolo sardo di Sofia dove, dicono loro, un pensionato nostrano di Siddi o di Ollolai, con ottocento euro al mese, vive come un pascià. In aumento quindi il numero dei soci. Comunque sia metà dei coristi oggi è “assente giustificato” poiché le modalità che hanno preceduto lo svolgersi dell’evento sono state alquanto farraginose, nel loro svolgersi, le misure di sicurezza imponevano un elenco dettagliato di chitarre e tamburi che avrebbero dovuto superare i raggi X dei cancelli ( del resto in tutti i film di gangster i mitra sono trasportati in custodie di violino o chitarra), per non parlare del leggio delle pagine musicali, in metallo leggero ma duro, simile a uno spadino capace di bucare pance e toraci, insomma il coro sarebbe stato fatto entrare sì ma da cancello particolare, alle quindici. Nel mattino del diluvio, in attesa che mi venissero consegnati i biglietti-omaggio per la restante “banda Martini”, sono andato allo stand Sardegna dove fortunatamente la folla dei sardi che lo avrebbero preso d’assalto per tutto il giorno ancora non si era palesata. Jacopo Ruggeri (ha una mamma impegnativa: Daniela Ducato) e la banda guspinese-cagliaritana stava preparando il “social carpet”, il tappeto sociale che veniva dato da cardare ai moltissimi curiosi che si soffermavano a rimirare il tessuto in lana di pecora sarda che veniva decorato mediante ciuffi multicolori (sempre di lana) appiccicati con aghi ad uncini speciali che agganciano l’uncino del ferro con quello delle proteine del filo di lana (c’è anche se non si vede) ad eseguire figure che sono fantasie di chi maneggia l’attrezzo. E, mi dice Rossella Lupo, guspinese DOC che si è presa una laurea in lingua e letteratura russa ( per specializzarsi sei mesi di Siberia), i più affascinati sono proprio i bimbi che mai vorrebbero staccarsi dal gioco. L’idea del tappeto è di Daniela Ducato, che qui è testimone per la regione Sardegna, sue anche le ceramiche- Edilana , come fossero quadri multicolori, alle pareti del padiglione, i colori ottenuti dagli scarti di ortaggi e vinacce, la lana di pecora a coibentare l’ambiente, i campanacci di greggi nel colore dell’oro, di svariate dimensioni, posti a ricoprire le pareti, e finora non ne è sparito neppure uno, nonostante la calca. Alla fine di uno stretto corridoio, l’immancabile postazione dei giganti cabrarissi in virtuale, si accede ad uno spettacolo altrettanto virtuale: muniti di appositi occhiali e spenta ogni luce, pare di nuotare nel cristallino mare sardo in compagnia di pesci affusolati e argentati, di carpe giganti che sembrano volerti ingoiare, tra una vegetazione di coralli policromi; dura solo quattro minuti ma fa l’effetto di una grande magia. Il guaio è che si possa vedere a una ventina di spettatori per volta e quando quelli che premono dietro sono centinaia l’effetto imbuto è inevitabile. Perfino i tenores di Bitti qui si devono esibire stretti da una mare di folla, tutta che vuole immortalare l’evento coi benedetti telefonini, per “postare” in diretta in internet ad amici e parenti, come è uso dei tempi. Arrivano intanto sempre più numerosi gruppi in costume, taluni in verità bagnati fradici, capita di girarti e di trovarti circondato dai ragazzi di Iglesias, e da le donne in costume sgargiante di Oristano e di Terralba. I più informati (molto pochi in verità) potevano seguire il convegno “Sapori e saperi in valigia, la cucina sarda nel mondo” che contemporaneamente si svolgeva nel padiglione di confagricoltura, presenti tra gli altri Franco Siddi, fresco di nomina nel consiglio di amministrazione della RAI, Bachisio Bandinu, il bittese che ha scritto libri importanti di antropologia sulle maschere di carnevale barbaricine e sui costumi di vita della Sardegna tutta, Giacomo Serreli giornalista cagliaritano che da anni segue e racconta la scena musicale sarda con un a speciale attenzione a quella legata al recupero delle matrici tradizionali ( ci farà l’onore più tardi di presentare “Sa oghe de su coro” al pubblico dell’Expo). Ci sono anche gli “chef” sardi che raccontano del successo della loro cucina, e la coda che si deve fare a Eataly per poter assaggiare un piatto di malloreddus a dieci euro, una seadas ne costa ben nove, sfida, vi giuro, quella che si deve fare per accedere al padiglione francese. La sfilata dei centosessanta in costume parte alle quindici tra due ali di folla che debbono discernere il suono delle launeddas dai continui annunci degli altoparlanti. Le bandiere dei quattro mori in ogni dove, gli orpelli d’oro e d’argento dei costumi femminili, le barrittas nere e i gambali dei maschi, i gruppi di ballu tundu che si formano spontaneamente prima del gran finale presso l’Albero della vita. Nel frattempo ho recuperato i coristi al cancello di Roserio, un salto a lasciare un segno sul tappeto sociale dove anche Iu Bing ( la g finale non si pronuncia) cinese-guspinese si da da fare per attirare gente a definire il “tappeto volante” le cui dimensioni sono proiettate verso i quaranta metri lineari, e ci si reca verso il salone biomediterraneo davanti al quale è prevista l’esibizione del nostro coro e, successivamente, l’esibizione dei “Sos Emigrantes” , un gruppo di cantori a tenore che , nel giro di poco tempo, è riuscito a portare le melodie della tradizione sarda in mezza Europa. Si canta in uno spazio ampio che la gente traversa di continuo, con musiche di sottofondo che rendono la concentrazione ancora più precaria. Abbiamo più pubblico durante le prove che nell’esibizione vera e propria. Meno male che anche “Sos Emigrantes” fanno un’interpretazione di “Procura de moderare” (bellissima la loro!) perché la nostra è davvero di basso livello. Ci dicono che siamo in “streaming”, collegati con più di sessanta paesi e non so bene quante centinaio di radio private. In effetti digitando un impossibile indirizzo farcito di numeri e di “http//” mi ci vedo pure io in un
a foto di gruppo con dietro scritto “Expo”, me la farò stampare sui biglietti da visita, ammesso che riesca mai a “scaricarla” dal web. Dal convegno dei sapori e sei saperi è emerso che la Sardegna possiede circa l’80% dei pani tipici italiani,bravo Paolo Pulina a ricordare, sul blog di “Tottus in Pari” che fin Nino Gramsci, scrivendo dal carcere, magnificava il sapore del grano duro sardo con cui era fatto il pane che la mamma gli aveva inviato per il Natale del 1930. Noi de “Sa Oghe de su coro”, più modestamente, ci congediamo cantando e chiedendo a tale Giovanna se preferisce il pane “duro” di Fonni a quello “molle” appena sformato ( si cantava negli tzilleri, osterie): “ A nde cheres de cozzula, Jubanna? Si no t’amus a dare pane lentu…”.
SI FA PRESTO A DIRE EXPO: IN COLLABORAZIONE CON LA F.A.S.I. , IL CONCERTO DE “SA OGHE DE SU CORO”
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