Giulio Angioni è un padre vagamente misconosciuto della letteratura sarda contemporanea. Anagraficamente più anziano dei Sergio Atzeni e dei Marcello Fois, li ha anche preceduti nella svolta che ha fatto maturare alla Sardegna una propria via letteraria alla forma romanzo, compiuta, diversificata, internazionale. La sua ultima fatica, Sulla faccia della terra, è allo stesso tempo un apologo politico e un tentativo consolatorio, l’estrema ricerca di una prospettiva in un mondo difficile. Trattandosi di isole, non può che venire in mente Utopia, di Thomas More. La vicenda, ambientata negli anni della distruzione di Santa Igia, capitale del giudicato di Calari, ad opera dei Pisani, nel 1258, è tanto semplice nel suo svolgimento, quanto densa di temi, consonanze, significati. Un gruppo eterogeneo di fuggiaschi dalla distruzione trova rifugio nell’isola adibita a lebbrosario, ormai disabitata, ubicata nel bel mezzo dello Stagno, anch’esso evocato come figura allegorica. La sorte dei rifugiati ha il sapore di fatti e circostanze tante volte enumerate nelle cronache storiche e persino in quelle giornalistiche dei nostri giorni, ma è trasfigurata potentemente da Angioni, con una vivezza efficacissima. La trama, elementare, serve da impalcatura per l’accumulo di racconti, massime e allusioni che costituiscono il contenuto principale del testo. Il gioco di riconoscimento delle citazioni fa parte del divertimento garantito al lettore smaliziato. Ci si possono riconoscere da Francis Bacon (il filosofo) a Eleanor Roosevelt e con loro scrittori, poeti, filosofi, musica, cinema e letteratura. La maestria con cui Angioni conduce il gioco è decisamente notevole, minimizza l’inessenziale, rende vivi i suoi personaggi, pur così caratterizzati e iconici, figure significanti di un’allegoria complessa. E la lettura non è mai difficile, nonostante gli anacoluti e le costruzioni ellittiche, che rendono bene il pensiero e il parlato di personaggi spesso di estrazione popolare. Tra essi, il lettore potrà agevolmente scegliere in quale identificarsi. Dicevo, più sopra, apologo politico. Questa mi pare senz’altro la cifra interpretativa più idonea a rendere conto del romanzo. Idee e modelli che hanno pervaso la contemporaneità vengono declinati abilmente in termini coerenti con la collocazione cronologica della vicenda, senza forzature, quasi a sottolineare che le questioni di fondo per la nostra specie sono sempre le medesime, epoca dopo epoca, e continuano a chiamarci in causa: libertà, eguaglianza, competizione o cooperazione, reciproca accettazione o frontiere culturali, potere agito o subito, religione come provvista di senso a cui attingere o come strumento di sottomissione, sfruttamento egoistico o valorizzazione condivisa delle risorse e dei beni comuni. Su tutto questo la posizione dell’autore è chiara e sembra sfidare il lettore a un esame di coscienza. E poi la continua evocazione dell’Isola Nostra, che non può non far pensare all’isola più grande, alla Sardegna tutta, non solo nelle sue vicende storiche del passato, ma soprattutto nella sua condizione attuale, nella precarietà del futuro che ci si sta dispiegando davanti. In questo mi pare che Giulio Angioni scrittore sia molto più coraggioso e generoso del Giulio Angioni intellettuale, troppo spesso organico al sistema di potere culturale e politico dominante in Sardegna, quasi un garante della condizione di dipendenza e subalternità dell’isola. Ma sappiamo che anche nell’animo umano ci sono più cose di quante ne possa contemplare la nostra filosofia, perciò, senza indulgere in giudizi ulteriori di altra natura, va ribadito tutto intero il giudizio letterario. Il libro, romanzo storico o apologo politico che sia, è una lettura preziosa che rilancia e arricchisce la produzione nazionale sarda di questi anni, per giunta – forse non a caso – nel ventesimo anniversario della morte di Sergio Atzeni, che di un’opera come questa può essere considerato una sorta di nume tutelare, da diversi punti di vista.
“SULLA FACCIA DELLA TERRA”: RECENSIONE SULL’ULTIMA FATICA LETTERARIA DI GIULIO ANGIONI
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