di Simone La Croce
Il Mississippi nasce nel Minnesota, attraversa gli Stati Uniti, da Nord a Sud, per migliaia di chilometri, per poi riversarsi nel golfo del Messico. A New Orleans. Il Taloro scorre tra le province di Nùoro e Oristano, dal Gennargentu, attraverso Barbagia di Ollollai, Mandrolisai e Barigadu, per sfociare, dopo poche decine di chilometri, nel lago Omodeo. Eccezion fatta per il fatto che sono due fiumi, non sembrano avere molte altre affinità. Eppure qualcosa ci deve essere. Ascoltando il primo lavoro di River Of Gennargentu, intitolato, non a caso, Taloro, si sente riecheggiare un blues di altri tempi e altri luoghi, suoni e canti che evocano più le piantagioni di cotone della Louisiana che le zone interne della Sardegna. Il blues è un genere musicale fortemente contestualizzato, radicato nelle sue origini, legato a doppio filo ai luoghi che lo hanno visto proliferare e ai contesti sociali che gli hanno dato origine. Quello di Lorenzo nasce a Gavoi, è semplice, pulito ed essenziale, suonato con chitarre acustiche vintage e cigar box autocostruite. Gavoi, ha una importante tradizione musicale e una vivace vita culturale, che si dipana tra Tumbarinos, costruttori di strumenti musicali e canto polifonico, passando, tra gli anni 80 e 90, attraverso una ricca e dinamica sottocultura musicale, sempre sensibile verso nuove tendenze d’oltre oceano. Un percorso culturale culminato, in questi ultimi anni, con l’Isola delle storie, che ha portato un paese intero a mobilitarsi per la realizzazione di un festival letterario, oramai di respiro europeo. Quanto di tutto ciò abbia influito sul talento di Lorenzo, posto che lo abbia fatto e che sia davvero importante, non lo sappiamo. Come non sappiamo se tutte queste congetture siano frutto della nostra fantasia, oppure se la Barbagia può essere davvero terreno fertile per generi musicali apparentemente lontani dalla sua storia. Cercheremo di capirlo insieme a lui, qui oggi a Campidarte (altra importante realtà isolana di cui parleremo in futuro), dove è stato invitato a suonare per la “Campidarte Fest”.
Io ho fatto un abbondante e ridondante preambolo per introdurti e provare a raccontare in poche righe chi sei e da dove vieni. Ma, River of Gennargentu o Lorenzo Tuccio, fai tu, chi è veramente? È un ragazzo di questi tempi che non cerca di fare un blues retrò ma un blues di adesso, calato nel reale. Questi tempi vanno raccontati in qualche modo e io ho trovato questo linguaggio che mi sembra adatto per descrivere quello che viviamo tutti, anche per quella che è la mia storia personale. Nel mio repertorio ho anche delle cover, però mi piace portare avanti la mia roba perché è quello il quel modo in cui voglio esprimermi.
Perché il blues e perché quel blues? Come sei incappato in questo genere? C’è stato qualcuno che, come spesso capita, ti ha introdotto o te lo ha fatto conoscere e apprezzare? Non lo so. Ascolto molti generi; la mia “educazione” musicale passa per cose molto rumorose, moltissimo punk, sia punk 77 sia hard core anni 80, americano ma anche italiano. Roba politica insomma. Mi ci ritrovo. Ecco, l’approccio e le tematiche arrivano dal punk, come anche la non necessità di dover per forza essere tecnicamente eccelsi e il fatto di trovare prima di tutto l’espressione personale. Tecnica non ne ho, è l’istinto che mi guida. Al blues, comunque, sono arrivato da solo; all’inizio ascoltavo principalmente Son House, Skip James, Bukka White, Blind Willie Johnson, poi sono incappato nel blues delle colline, che è quello che ora cerco di riproporre.
Come detto nel pippone introduttivo, ritengo il blues un genere fortemente “contestualizzato” nel tempo e nello spazio. Oltre ovviamente al nome d’arte che ti sei scelto e al titolo che hai dato al tuo lavoro, quanto dell’humus sociale e storico in cui sei cresciuto c’è dentro quello che suoni? Moltissimo. Le prime volte che ho ascoltato il blues, da subito mi è sembrato qualcosa di già sentito; ricordava molto la gente della nostra zona alla fine. Io ci ho sempre visto quello. Il carattere delle persone mi sembrava lo stesso. Mi faceva venire in mente mia nonna che canticchiava quando ero piccolo. Lei era inconsapevolmente blues. È tutta una questione di sentimento e di affetto alla fine. Ho avuto l’impressione di conoscerla da sempre questa musica.
Nella tua musica si sente prepotente la ricerca di un certo tipo di suono, che ricorda molto il blues delle origini (Robert Johnson, Son House, Skip James, solo per citarne alcuni), e altrettanto presente pare la ricerca di una personale tecnica di esecuzione unita alla accordatura non-standard della chitarra. Ci potresti descrivere meglio tutto ciò, considerato che la prima volta che ne abbiamo parlato la tua risposta è stata piuttosto elusiva (Boh! N.d.R.). Ma de itte..de s’accordatura..? (ride, ndr) È tutto istinto. La mia tecnica, alla fine, è poca roba. Cercavo una accordatura che ricordasse un po’ Skip James, quindi qualcosa in minore. Poi anche se in effetti parlo di minore, non ti so dire tecnicamente che cosa vado a fare, perché non conosco le note. Vado a orecchio, a gusto nell’ascolto. Sicuramente mi piaceva l’idea di contrasto tra maggiore e minore che proponeva Skip James, ma se mi chiedi di cosa si tratta, ti rispondo che non lo so.
Un maestro blues, Roberto Menabò, che una volta mi ha sentito suonare, mi chiese dell’accordatura. Anche a lui ho risposto che non sapevo quale fosse. Mi prese la chitarra, controllò e mi rivelò che suonavo in Re modificato.
Questo è molto punk… Si, molto punk, te ne devo rendere atto (ride, ndr).
Ultimamente hai partecipato a diverse importanti manifestazioni, nazionali (il Majella Sound Camp, la Festa della Musica dell’Arci, il Mojo Station Blues Festival di Roma) e ad agosto suonerai al Fever Creek Festival Festival di Berlino. Come è arrivato un ragazzo di Gavoi a calcare quei palchi e cosa stanno dando queste esperienze a te e alla tua musica? Sono arrivato su quei palchi casualmente. Non me lo aspettavo. Ho iniziato, circa due anni fa, caricando tre brani su Soundcloud, giusto per vedere l’effetto che avrebbe fatto. E sono piaciuti. Nell’agosto 2014 ho esordito live al Vulcani Festival. Non avevo ancora registrato il disco. Per questo bisogna rendere merito a Diego (Diego Pani della Talk About Records, ndr), che, senza un disco in mano, mi ha fatto suonare a scatola chiusa. Ogni tanto spedisco delle mail per cercare date. Per Gambettola (Festa della Musica Arci, ndr) mi hanno contattato così. Per il Mojo festival e il Majella Sound Camp, mi hanno chiamato di loro iniziativa dopo avermi sentito su Soundcloud. Nei locali invece te le devi cercare le date. Poi adesso la cosa si alimenta da sola…
Dai l’impressione di essere un tipo sereno e piuttosto equilibrato. Dove li tieni nascosti i tuoi Diavoli Blu (“to have the blue devils” è l’espressione dalla quale deriva il termine blues, ed è riferita a piccole entità diaboliche che si impossesserebbero del bluesman conferendogli tristezza, sofferenza e malinconia, ndr)? Eeehh…non mi connosser’bene (ride, ndr). Come tutti passo dei momenti up and down. Il blues aiuta molto in questo e la musica in generale è una valvola di sfogo. Se io non avessi la musica, veramente… È una parte molto importante. Mi capita a volte di avere a che fare con gente che mi dice di non ascoltare musica. Ma ‘ommente ‘achese… Cioè, secondo me è impossibile..
Che idea ti sei fatto del “piccolo” clamore che si è creato attorno al tuo disco? Non me la sono fatta un’idea. Abberu. Evidentemente riesco a comunicare. E questo è bello. Perché era la cosa che principalmente mi interessava. Sinceramente non so cosa dire di più perché è tutto in divenire. Non me lo aspettavo anche perché le cose che ho fatto finora, le ho fatte solo per suonare. Perché mi piaceva farlo. Ma se comunica qualcosa, ben venga…vuol dire che sono sulla strada giusta e non è più una cosa “egoistica”.
Come sono arrivati a te i ragazzi della “Talk About Records” e quale è stato il loro apporto alla produzione dell’EP? Io ho iniziato da solo, come Slim River, ma non ho mai pubblicato niente. Avevo giusto fatto un po’ di registrazioni e Marco Spanu (percussionista che veniva dallo stoner e dall’elettronica), dopo averle sentite, mi chiese di fare qualcosa insieme. Così abbiamo creato un duo, i Black Lodge Juke Joint, in cui io suonavo la chitarra e cantavo. Marco, invece, suonava delle scatole di cartone amplificate con microfoni piezo, un po’ alla Doo Rag, anche se lo avremo conosciuto solo in seguito. Andavamo in giro a suonare con una station wagon, scaricavamo nei parcheggi e iniziavamo a suonare. Principalmente a Cagliari e nel Campidano. L’idea era arrivare in un posto e suonare. Qualsiasi posto. Una volta alla casa dello studente di via Trentino (a Cagliari, ndr), in una macchina c’era la vernaccia, portata e offerta da un amico, e in un’altra c’erano gli ampli. Era molto bello. Vedevi il punk anarchico, lo studente e il lavoratore. Chiunque. La cosa che a me piaceva è che tutti eravamo uniti. Questa è una cosa importante. Non ci deve essere differenza. Il punk può stare assieme con il lavoratore e con lo studente. Poi ci siamo fermati e ho iniziato a lavorare sui miei pezzi.
E qui è ricomparso Diego, che prima di ascoltare la mia roba era interessato a registrare i Black Lodge Juke Joint. L’ho registrata a casa, in presa diretta chitarra e voce, non avevo neanche una scheda audio. Una roba supersgrausa. Poi ho mixato su Cubase, giusto con qualche riverbero e un po’ di equalizzazione. Volevo che fosse il più semplice possibile e senza troppe manipolazioni. Diego poi mi ha lasosto che non sapevo quale fosse, delle registrazioni ma mi ha detto “continua e quando finisci me lo dai”. E così è stato; ho chiuso le registrazioni e gli ho consegnato il tutto, che così è stato inciso sull’EP. Per me è stato molto importante non avere interferenze…riuscire a fare quello che ti pare, anche se suonato male.
Nei circa 150 anni della sua storia, del blues si è detto e suonato tantissimo, senza considerare l’influenza che ha avuto sul 90% della musica moderna. Credi di avere qualcosa da aggiungere a quanto già fatto? Non lo so. Io faccio il mio e basta. Non posso dire che sto scrivendo qualcosa di diverso. Faccio il mio. Punto. Cerco di comunicare con le persone. È la cosa principale. Non per mettere in cattiva luce altri approcci, ma a me, per esempio, non piace fare quello che si mette il cappellone da bluesman. Mi interessa fare una roba vera che parli di cose reali. Di fare la macchietta così non mi importa. Non mi interessa fare il genere blues. Il blues non è un genere. È un sentimento prima di tutto.
Proprio come il punk è un’attitudine… È tutto un’attitudine e un sentimento. Anche se nel punk è brutto parlare di sentimenti…il punk un po’ si vergogna di questo. Ma alla fine è di sentimenti che si parla.
In conclusione passiamo ai progetti per il futuro. Dopo l’EP “Taloro” credo che ci si aspetti grandi cose da te. Senti un po’ di pressione oppure ti senti già pronto a passare a qualcosa di più impegnativo? Eh..za mi du ser nande… (ride, ndr).Pronti non si è mai. Non lo so cosa ne può uscire fuori. Qualcosa di bello sarebbe l’obiettivo principale.. Ho qualcosa di sparso, qualche riff, qualche roba così. Mi piacerebbe approfondirlo e registrarlo. In inverno mi ci metto e farò sicuramente qualcosa di nuovo. L’ideale sarebbe fare un 45 giri. Ma non escludo che sia un full lenght. Vediamo. Teniamola sul vago questa (ride, ndr) perché non lo so…