“DIE” UN DISCO CHE FIGURA TRA I MIGLIORI DEL 2015: INTERVISTA A JACOPO INCANI (IOSONOUNCANE) CHE PRESENTA IL SUO ULTIMO LAVORO DISCOGRAFICO

Jacopo Incani (iosonouncane)


di Natascia Talloru

Jacopo Incani, noto con lo pseudonimo IOSONOUNCANE è un musicista-cantautore sardo originario di Buggerru (CI). Classe 1983 a diciannove anni si trasferisce a Bologna. Per circa 10 anni fa parte della band Adharma, con la quale ha pubblicato nel 2005 l’EPRisvegli. In seguito il gruppo si scioglie e nel 2008 nasce il progetto solista IOSONOUNCANE, partendo dall’utilizzo di un campionatore e di una loop machine. Nel dicembre dello stesso anno pubblica alcuni inediti su MySpace e nel luglio 2010 entra in studio per lavorare sul primo album d’esordio La Macarena Su Roma che uscirà ufficialmente in ottobre, pubblicato dall’etichetta discografica indipendente Trovarobato. L’album viene apprezzato notevolmente dalla critica, vince il premio “Fuori dal mucchio” e viene inserito tra i finalisti del “Premio Tenco” nella categoria “Miglior opera prima” 2011. Sempre nel 2011 collabora con Dino Fumaretto per il missaggio dell’album Sono invecchiato di colpo, uscito poi nel 2012 per la Trovarobato. Nello stesso anno pubblica il singolo Le Sirene di Luglio e una versione di Torino pausa pranzo suonata con Stefano Bollani e Mirko Guerrini, registrata durante il programma radiofonico “Il dottor Djembè”di Radio 3.Dopo un lungo periodo di silenzio nel marzo 2015 esce il suo secondo lavoro discografico Die, designato da GQ Italia come l’unico disco italiano che figura tra i migliori 15 del 2015. La sua musica appare un mix di cantautorato, beat elettronici, free-jazz, prog e psichedelia attraverso testi provocatori e taglienti raccontati con ironia dissacrante e cinismo, puntando un focus su temi di attualità come la precarietà, il razzismo, la disinformazione e le disparità sociali. Nel suo ultimo album arriva a toccare tematiche di solitudine e di naufragi esistenziali con uno stile originale che all’ascolto disegna mentalmente paesaggi della Sardegna più arcaica.Con lui parleremo di musica, del suo nuovo lavoro Die e del legame con la Sardegna.

Partiamo dal tuo nome e progetto IOSONOUNCANE. Spiegaci come nasce…   Il progetto nasce nel 2008, dopo che si è sciolto il gruppo Adharma, in cui avevo sempre militato dagli anni del liceo sostanzialmente. Avevo ancora un gran voglia di suonare e ho deciso di intraprendere un processo solista. Avevo pensato di trovare un nome che potesse riguardare il progetto, non me direttamente, forse perché comunque non avevo piacere ad iniziare un qualcosa incentrandolo sui miei dati biografici.  L’idea iniziale era “Io sono uno”, che sarebbe una canzone di Tenco, poi realizzando che nessuno mi avrebbe trovato su google giocando col mio cognome ho pensato a IOSONOUNCANE.

Cosa vuol dire per te essere un musicista e essere un cantautore? Come ti definisci? Dipende, nel senso che ci sono delle differenze. Quello che si intende in Italia come cantautore è molto diverso da ciò che si intende nel mondo anglosassone, il cosiddetto songwriter. In Italia il cantautore mediamente è quello che si muove su tematiche tradizionali, scrive canzoni di impegno cariche di messaggi da dare e in qualche modo è molto poco musicista, o si fa aiutare dagli altri tranne rarissimi casi, tranne Battiato per farti un esempio attuale. All’estero il discorso è molto diverso, il songwriter è Nick Cave, Wyatt, Tim Buckley,  musicisti che sono un po’ anche in grado di scrivere i testi, e che hanno la voglia di cantarli direttamente. Io ho iniziato prima a suonare e poi a scrivere testi con coscienza di quel che stavo facendo. Mi reputo un musicista che però scrive anche i testi, che esegue e non registra quello che ha scritto. Il termine cantautore non mi piace molto ma per ciò che richiama più che altro.

Leggi parecchio e ascolti tantissima musica variando con gli stili, poca italiana a quanto pare. Quali tra gli artisti o generi musicali e letterari pensi possa aver avuto un maggior impatto su di te e sulla stesura di Die? Leggo e ascolto molti dischi non contemporaneamente. Sono soggetto a fasi cicliche. In questa fase sto leggendo tantissimo. All’inizio invece quando ancora lavoravo sulle bozze di Die ho ascoltato molti dischi. Non ci sono state delle influenze musicali nette che si sono distinte dalle altre. Sono emersi tanti degli ascolti fatti negli ultimi anni ma anche da adolescente. La mia primissima formazione è stata la psichedelia anni ‘60, questo intorno ai 14-15 anni, il primo amore e tutt’ora il più grande. Però negli anni son nati altri ascolti sommandosi un po’ come dei fogli di carta uno sopra l’altro, che esposti all’umidità si sono compenetrati e mischiati: la psichedelica appunto, la canzone d’autore, il progressive, la techno, la new wave, il post punk, la musica minimale, l’elettronica del ‘90, la musica tradizionale sarda, la classica, il free-jazz. Son tante, non ho la sensazione che una emergesse. Per quanto riguarda le influenze letterarie prima della stesura di un disco faccio un lungo lavoro di documentazione, perché ho necessità di mettere a fuoco un punto di vista del lessico e della struttura. Sul primo disco leggevo molta letteratura distopica e saggi di sociologia. Lavorando su Die invece è cambiato anche questo. Con le melodie sono venute fuori immediatamente una manciata di parole ricorrenti: sole, rive, sale, fame, morte, alghe ecc. Le cantavo da subito e le ho assecondate, ho capito dal principio che non avrei potuto ignorarle ma avrebbero costituito la nervatura portante, sulla base anche del significato che queste parole mi suggerivano spesso in contrasto con la parola stessa. Dunque ho fatto tutta una serie di letture che ho ritenuto potessero essere molto vicine come punto di vista essenziale, ho letto più volte per esempio “Lo straniero” di Camus, “Furore” di Steinbeck, “Il vecchio e il mare” di Hemingway,  “Paese d’ombre” di Dessì, “Padre Padrone” di Gavino Ledda. Anche tanta letteratura sarda insomma perché penso sia comune a tutti i sardi un certo modo di raccontare, come dire, il rigenerante ciclico e violento della natura. Quindi è stato ovviamente naturale andare verso questi temi rispetto ad altri.

Die in sardo significa giorno, è questo il concetto che vorresti passasse oppure lasci a libere interpretazioni? Lascio libera interpretazione e anzi il fatto che la stessa parola si possa leggere in più lingue è stata una cosa che ho ricercato a suo tempo, in sardo è giorno, in inglese è morire e in tedesco significa lei. Quindi lo stesso titolo abbraccia più punti di vista sulla storia raccontata dal disco.

C’è un collegamento tra il titolo e il contenuto del disco? Si, il disco racconta la storia di un uomo e una donna in una manciata di secondi sotto il sole cocente di mezzogiorno. L’uomo si trova in mezzo al mare e incrocia diciamo il pensiero, attraverso la musica, del non tornare più a riva. La donna si trova sulla terraferma e incrocia a distanza il pensiero che lui possa morire e che quindi non possa rivederlo più. Il disco racconta la storia del sentimento di paura della morte da loro due provati in una frazione di secondo.

In alcune tue interviste hai affermato che l’album può essere considerato “politico”, forse anche più del tuo precedente lavoro La Macarena su Roma. Cosa intendi dire con “album politico”? La premessa a questa affermazione è che la valenza politica in un’opera la si dà sempre a posteriori. Diciamo che negli ultimi decenni in Italia il confronto tende al fraintendimento, si confonde la cronaca con la politica, si considerano politici quei dischi o modi che si attengono in maniera estremamente fedele, e mio avviso sterile, a quella che era la cronaca politica e sociale del nostro paese. Die secondo me è un’opera dal valore politico perché rispetta l’aderenza cronachistica al presente di questo paese, soprattutto nella scelta dei linguaggi, del lessico, nella scelta dell’analisi. Non c’è probabilmente operazione più politica di un’operazione sul linguaggio. In questo senso Die è molto più politico del mio disco precedente che seguiva una lineatura sociale ma impiantato all’interno di un orizzonte di analisi consolidato.

Segui un genere musicale/non genere se vogliamo poiché è difficile etichettarti ma il filo conduttore che penso si percepisca sottilmente è la musica tradizionale attraverso l’inserimento dei canti a tenore e della chitarra sarda “preparata”, ma anche il legame con la natura e la terra. Che rapporto hai con la Sardegna per l’appunto? Per me la Sardegna è il dizionario attraverso il quale io codifico la realtà, sono nato e cresciuto a Buggerru, quindi la Sardegna ha inevitabilmente, attraverso lo sguardo, formato il mio rapporto istintivo e inconscio con quel vivente. L’obiettivo con questo disco non era fare un discorso sulla Sardegna. E’ un disco che però utilizza quel lessico puntando diciamo ad una forma archetipica. Per me è quella la struttura nel senso che sono cresciuto col mare davanti e tra due montagne, montagne vuote per via degli scavi minerari, ho formato il mio sguardo e la mia interpretazione della realtà del vivente e del morente con queste idee. Rispetto al disco precedente è il caso di dirlo è stato istintivo l’utilizzo del canto a tenore sardo, probabilmente perché sono arrivato alla boa dei trent’anni e negli anni precedenti stavo fuori casa, o perché tre anni e mezzo di tournée ininterrotta, da solo, continuamente sul treno come dire tra persone nuove, mi ha dato modo di pensare  e mi ha dato il tempo per far sì che tornasse a galla direttamente. Quindi c’è stato proprio un ritorno alle origini non necessariamente reale, anzi per nulla patriottico, probabilmente per impossessarmi nuovamente di quella chiave di lettura. Parlando di tradizione dal mio punto di vista non è un edificio fermo, ma è un mezzo di trasporto, è una nave, serve non per marciare sotto costa, ma come una piattaforma galleggiante serve per l’esplorazione.

Sei un artista che non può essere catalogato o paragonato a nessun altro emerso fino ad ora in Sardegna. Quanto ha inciso la tua esperienza di vita fuori dall’isola nel tuo modo di essere ed esprimerti? Ha inciso in maniera estremamente profonda, soprattutto se vissuta al di fuori del circuito universitario che non ho mai frequentato per quanto io abbia fatto l’università. Ti ritrovi comunque in una terra culturalmente di passaggio e di snodo addirittura, questo ti dà la possibilità di percepire e interiorizzare e far tuoi diversi approcci e diversi linguaggi, e anche ti dico la verità ti dà le occasioni che purtroppo in Sardegna non hai, come mettere realmente a confronto il tuo lavoro con qualcos’altro. Per me stare a Bologna anche dal punto di vista pratico ha significato la possibilità materiale, concreta, organizzativa, di poter fare 250 concerti in tre anni e mezzo in giro per l’Italia, dalla Sicilia alla Valle D’Aosta. Sicuramente queste possibilità ti temprano e levigano il tuo linguaggio e il tuo sguardo. Quindi diciamo che l’incidenza che ha avuto Bologna, il mio vivere in questa città nel mio percorso è duplice, impalpabile dal punto di vista culturale ma anche pratico organizzativo.

Cosa ne pensi dell’ondata di giovani sardi che emigrano e di coloro che invece gradualmente ritornano. Qual è la tua visione della Sardegna  o come vorresti che fosse, anche artisticamente intendo.. Penso che nel 90% dei casi questa partenza sia forzata e inevitabile. Nel mio caso personalmente sono andato via di casa a 19 anni perché volevo suonare con la consapevolezza che non l’avrei potuto fare in Sardegna. Il punto è che il problema non è nel non andar via, ma nel non poter tornare a casa. Quasi tutte le persone che conosco sognano di poter tornare a casa, o sperano di avere un lavoro per ritagliarsi una stabilità economica. La maggior parte tra i miei conoscenti hanno più o meno tutti la stessa visione di quello che dovrebbe o potrebbe essere la Sardegna, semplicemente una terra che investe sui suoi talenti, su quella che è la propria identità per crearsi un futuro, quindi affidandosi alla tradizione non per rimanerci, ma per essere traghettata nel futuro. Questa è anche la mia visione comunque. Dal punto di vista artistico si potrebbe dire lo stesso, i problemi sono realmente pratici nel senso che organizzare un Festival in Sardegna, portare delle persone a suonare è molto difficile da realizzarsi perché i costi sono elevatissimi e lo sforzo è quintuplicato. Insomma mai demordere però.

Domanda di rito, che consiglio ti senti di dare agli artisti/musicisti sardi?

Mah non saprei, è difficile, non sono nella posizione di poter dare consigli. Mi verrebbe da dire di muoversi per tempo, per organizzarsi dei concerti fuori dalla Sardegna in maniera tale da poter trovare dei voli Ryanair per potersi spostare. E’un consiglio pratico quello che ho voluto dare.

*focusardegna.com

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