“Scommetto che stai andando a Roma a fare la serva” si sente chiedere Pietrina alla stazione di Cagliari dove incontra Erminia, già da alcuni anni a servizio nella capitale, che accompagna altre due ragazze anche loro con federe bianche come valigie. Attraverso la storia di Pietrina di Foghesu, che è il filo conduttore, spesso sottotraccia, del libro,Giacomo Mameli racconta in “Le ragazze sono partite”le storie di moltissime donne sarde che nel secondo dopo guerra lasciarono i loro paesi per andare a fare le serve “ sastzeraccas” a Roma o a Milano ma anche in fabbrica e anche in Svizzera.
L’opera è stata presentata dall’Associazione ACRASE , I Sardi a Roma, il 12 giugno nella Sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini, in Campidoglio,alla presenza di un pubblico numeroso e attento.
“A Roma lo capisci che il mondo è doppio, diviso tra ricchi e poveri. Servi e serviti. Padrone e serve (……) Qui la vita è un’altra, è moderna, quella del mio paese è vita antica. Antica ma quasi quasi più umana”Spiega sempre Erminia alle nuove amiche durante il viaggio lungo e difficile che diventa anche un rito di passaggio: partono quasi bambine a arrivano già donne.
La voce di Maria Rosalba Mereu, accompagnata alla chitarra da Miriam Chiappi, ci introduce subito nelle storie di queste donne e ci accompagna per tutta la presentazione.“Ogni domenica sera, la Sardegna scappata dalla Sardegna, si dà appuntamento alla stazione Termini”;ma alla stazione Termini e precisamente al binario 23, alla partenza del treno serale per Civitavecchia, vanno spesso un po’ tutti i sardi residenti a Roma, anche gli studenti universitari, come racconta, in una intervista, lo scrittore Bachisio Floris, perché è quasi un pezzo di Sardegna.
La Cons. Maria Gemma Azuni, Vice Presidente dell’Assemblea Capitolina, apre gli interventi, dopo queste prime letture, descrivendo le sue personali difficoltà di adolescente, emigrata a Roma dal paese natale, Olzai, dove il padre aveva venduto il suo gregge per poter trasferirsi e garantire ai figli la possibilità di studiare. E proprio nella scuola Maria Gemma si scontra con i pregiudizi, con gli stereotipi di una professoressa che vedeva come esclusivo destino per le ragazze sarde quello di domestiche. Da questa esperienza, a cui coraggiosamente reagisce, nasce anche la scelta di studi e la sua vocazione professionale che pone al centro il sociale. Ed è proprio nell’Associazione ACRASE , che all’inizio degli anni 70 aveva circa 2.500 iscritti, che incomincia ad occuparsi di assistenza sociale degli emigrati e in particolare alle donne seguendo e impegnandosi per l’integrazione di numerosissimi di loro. Successivamente, dopo la vincita del concorso presso l’Ente Provinciale, il suo lavoro la mette ancora in contatto con numerosi casi, ancora spesso di donne, presso il Manicomio di Santa Maria della Pietà quando il senso di sradicamento e le difficoltà sfociavano in veri e propri disturbi mentali. Oppure neibefotrofi dove molte donne erano costrette ad abbandonare i loro figli spesso frutto di relazioni subite con i padronie padroncini o di rapporti pseudo affettivi con appartenenti alle forze dell’ordine.
Tutte queste storie, che appartengono ad un passato non troppo lontano, ci avvicinano a quelle di migliaia di profughi/e, immigrate/i, persone che, in condizioni senz’altro più disagiate e disperate, proprio in questi giorni affollano stazioni, posti di frontiera, porti d’Italia.
“Stanno arrivando le tunisine” dice Beatrice” “ serve tunisine? Serve si, tunisine no, ma state a Tunisi(…..) non per turismo. Neanche per lavoro ( …..) ce le avevano mandate i padroni, viaggio premio per non diventare mamme.”
L’intervento di Maria Gemma Azuni solleva, tra gli altri, un aspetto molto importante: il rapporto tra emigrazione e salute mentale, studiato in particolare dalla Psichiatra Nereide Rudas, docente dell’Università di Cagliari, che nella sua relazione al 35° Congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria, tenutosi a Pula il 21 ottobre 1992 dal titolo “Inurbamento e psicopatologia; dal malessere urbano al disturbo mentale” afferma che : “ L’emigrazione sarda ebbe altissimi costi psichiatrici”. E citando i dati, relativi agli anni 1978/80, afferma che il 10% della popolazione dei Centri diIgiene Mentale era costituito da ex emigrati.
Martina Giuffrè, ricercatrice in Antropologia Culturale presso l’Università di Sassari mette in rilievo come il libro di Mameli abbia avuto il duplice merito di ricostruire un “tessuto di memorie” spezzato da un evento traumatico come quello dell’emigrazione di massa che ha visto lo spopolamento di interi paesi e di reintrodurre le voci mancanti delle donne sarde e dei loro percorsi migratori ancora poco raccontati. Giuffrèinoltre mette in rilievo la polifonia e la coralità del testo di Mameli che si fa “autore epico di una voce collettiva” attraverso una non comune capacità di entrare nei mondi femminili. Attraverso le storie di Pietrina e della altre donne, infatti, l’autore ci racconta la storia dell’Italia, mettendo in dialogoil mondo agro-pastorale dell’entroterra sardo, come Foghesu, con il mondo dell’Italia industriale, Roma e Milano. Ai giochi di una volta, ai luoghi senza luce, illuminati la notte solo dalle stelle e dalla luna, dove si va ancora alla fonte a prendere l’acqua magari scalzi a otto anni come Carrula “dai piedi di ferro”, o si mangia nelle scodelle di alluminio, si fanno i bisogni per strada da sotto le gonnelle nere e ci si lava alla fonte all’imbrunire per non essere spiati, si contrappongono le città con la loro modernità, con le nuove tecnologie, con stili di vita diversi, le fabbriche, le banche, fino ad entrare attraverso i racconti di queste donne in casa Kezich, Ciano-Mussolini, Segni, De Chirico.
Giuffrè conclude il suo intervento mettendo in risalto come alcune delle tematiche chiave che emergono dal testo di Mameli, come la relazione tra donne che partono e coloro che restano al luogo d’origine, il viaggio come complesso rito di passaggio, l’incontro con le nuove tecnologie, il ritorno, gettino una luce interessante anche su mondi migratori diversi e attuali suggerendo di leggere attraverso le storie del passato le migrazioni del presenze mettendone in risalto differenze e assonanze per una visione lungimirante del nostro futuro.
La prof.ssa Giuffrè ha sottolineato come il libro di Mameli ha introdotto le voci mancanti delle donne sarde emigrate e ciò è particolarmente significativo in quanto, come scrive la Professoressa Nereide Rudas(“Emigrazione sarda 1974, volume curato per il Centro Emigrazione di Roma), l’emigrazione sarda è caratterizzata da una costante e cospicua componente femminile che la differenzia dall’emigrazione meridionale.
Uno degli aspetti più interessanti dell’opera di Mameli è sicuramente il linguaggio, ricco, pieno quasi di pennellate pittoriche, costruito spesso con frasi brevi dense di significato.
Proprio su questo aspetto è incentrato l’intervento della Prof.ssa Anna Maria Pedaccini Floris, autrice di testi sulla metodologia della lettura e della scrittura creativa.
La professoressa sottolinea, all’inizio, che Giacomo Mameli è prima di tutto un bravissimo giornalista, ma è anche un sardo profondamente legato alla sua terra e da queste due componenti nasce una ricca produzione di libri dedicati alla Sardegna. Il giornalista cerca, scava incessantemente con la curiosità intelligente, aperta ad ogni possibilità senza preclusione.
Dai suoi scritti emergono le figure dei sardi di dentro e sardi di fuori di ogni livello, di chi si fa conoscere per la sua forza, l’iniziativa, la capacità di affrontare lavori anche difficili o originali
Ma anche quelle di gente semplice, di lavoratori, di vecchi tornati da guerre lontane, fino, in questo libro, alle donne, le “serve”, incredibilmente coraggiose, partite bambine ad affrontare un mondo lontano, sconosciuto, in cui, però, lavorare permetteva di mandare soldi ai genitori per aggiustare le case, comprare bestie, far stare meglio i vecchi.
In questo mondo Giacomo si immerge dunque con il metodo del giornalista serio , ma anche con la partecipazione affettiva che mano a mano traspare dalla pazienza, dall’amore con cui raccoglie i racconti da donne che hanno vissuto con la loro esperienza il passaggio da contadine a “signore”, poco a poco, quasi sempre senza montarsi la testa, attente sempre a costruire (i soldi in parte spediti, in parte accantonati), a creare nuove famiglie incontrandosi in continente con altri giovani lavoratori
Questo duplice aspetto del libro di Mameli si riflette nel suo stile:il giornalista raccoglie le testimonianze, le riordina, crea una rete in cui ognuna di queste donne trova il suo posto, in un gruppo corale: le esperienze sono simili, a Roma, a Milano, in Svizzera.
All’inizio le giovani affrontano case sconosciute, telefoni, bagni, cucine attrezzate, gas, frigoriferi; ma tutte queste novità sembrano sorprenderle solo al primo impatto. Sono sveglie. Si adattano subito, cucinano per i nuovi padroni fin dalla prima sera. E poi migliorano, studiano, vanno in fabbrica, arrivano in banca.
Alla base del racconto corale c’è una struttura forte, che non sfugge mai all’autore, una visione della realtà salda, razionale, ordinata che si esprime nella sintassi sempre fluida, corretta e chiara, nella ricchezza linguistica che gli permette di scrivere con semplicità qualsiasi concetto, anche complesso, senza ambiguità di comprensione.
Ma l’adesione alla vita dei personaggi e ai personaggi stessisi manifesta poi nel riportare i racconti mantenendone ritmi, espressioni, cadenze, come solo può fare chi è nato sardo e, pur attraverso lo studio rigoroso, sardo è rimasto dentro. E non sono solo aride strutture linguistiche, ma corrispondono alla mentalità e all’esperienza di chi parla.
Ce ne accorgiamo nella costruzione dei periodi costruiti prevalentemente in una paratassi che corrisponde al sovrapporsi delle novità viste con ingenua sorpresa, ma anche rielaborate in un sapere eterno in cui la vita supera i momenti storici per rivelare i suoi cicli profondi e immodificabili: “E tutti i signori sono ricchi (……)Sarà così in tutto il mondo. Padroni e servitori. Padrone e servitrici.”.
Nell’uso che rimane anche in chi ha studiato di mettere i verbi in fondo (“ cucinare dovevo”,,)dando loro la forza di riverberarsi su tutto il periodo.
In espressioni come “tutte a borsetta”o “i padroni già mi pagano”, in cui “già” è il tipico rafforzativo sardo; o nelle parole del parroco che cerca invano di contrastare l’evoluzione femminile rimproverando Maretta che si mette il rossetto; ma quando lui, abituato a dettare principi di morale e di buon vivere senza essere contraddetto, per la prima volta si sente chiedere “e perché?” non sa rispondere altro che “perché non fa”, e poi, stizzoso,” perché non fa, ti ho detto”. In quegli strani participi “mangiata e dormita nella stessa casa del padrone” o “gente di fuori, studiata”.
Traspare anche il pudore dei racconti fatti da queste ragazze ormai anziane “ne capitano anche altre di cose”, “faceva i comodacci suoi”, le “tunisine” e il silenzio in cui affondano le loro storie di aborti procurati in Tunisia e subito messi a tacere.Il tono si fa poi lirico quando l’autore descrive i luoghi/eden di Foghesu“nel paradiso terrestre diLuesu, dove qualche coppia andava a far l’amore e i sospiri venivano coperti dal concerto di quaranta cascatelle” o addirittura magico e fiabesco nella descrizione del volo dei pipistrelli invano inseguiti dai bambiniche cercano di colpirli con le canne.
Dopo la puntuale e rigorosa analisi linguistica e stilistica della Prof.ssa Pedaccini Floris la parola passa a Giacomo Mameli che racconta come la sollecitazione a scrivere questo volume gli sia venuta da una delle protagoniste; Carrùla, la serva bambina dai piedi diventati come il ferro per l’incessante andare e tornare sui sassi, scalza. Carrùla quasi lo rimprovera per avere scritto solo storie di uomini, anche di Foghesu nelle sue opere precedenti come in“La ghianda è una ciliegia” e raccontando la sua storia ha sollecitato l’interesse dell’autore nel raccogliere quelle di altre donne, spesso poco più che bambine, di Foghesu ma anche di altri paesi della Sardegna. Storie raccontate in sardo che Mameli ha saputo rendere in un italiano estremamente efficace.Il suo intervento si conclude con la lettura della caccia ai pipistrelli dei ragazzini di Foghesu, un pezzo tra i più felici del libro, in cui pare di vedere “I pipistrelli sempre felici e svolazzanti, piccoli e grandi, neri e color cenere. E padroni del cielo”
Un pezzo della mia storia da emigrata!