Il viso, le mani, i piedi della donna contratti in un gemito di dolore per lo strazio del figlio ucciso, portano Francesco Ciusa lontano dal punto di partenza in uno straordinario viaggio di conoscenza di sé. Nuoro in quel tempo era remota, veramente lontana dagli uomini e dalle altre cose del mondo ma anche del resto dell’Isola, così da trattenere i colori e il senso della leggenda. È la Nuoro che appartiene ancora alla provincia di Sassari, parte amministrativa del Capo di Sopra, divisa dal Capo di Sotto per temperamento e costumi. È questa la Sardegna in cui Francesco Ciusa descrive le sue anime sulla pietra e ogni tocco di scalpello è gesto di passione, di rabbia, di dolore e di vita. Ciusa è storico puro, la sua Madre dell’Ucciso, – protagonista assoluta della VII Biennale di Venezia nel 1907, e che decreterà la grandezza mondiale del genio plastico del ventiquattrenne artista sardo – è icona della misteriosa storia dell’Isola, traccia dell’imprevista e sorprendente facoltà del popolo sardo di sopravvivere all’insopportabile fardello del dolore. La Madre è da subito un contributo immortale alla storia della resilienza umana. Il critico d’arte Ugo Ojetti tenta di dare una ragione di un trionfo inaspettato e così documenta un suo articolo sul Corriere della Sera all’indomani della vittoria del giovane nuorese: “Francesco Ciusa, un sardo ignoto, credo, fin’ora alle grandi Esposizioni, manda un gesso: La Madre dell’Ucciso, così profondamente osservato, reso con tanta scienza, che mi sembra sia la più importante rivelazione della mostra di scultura“. L’esperienza del mondo per il Ciusa fanciullo non passa dai libri: la curiosità verso la materia lo porta un giorno a scoprire in campagna, una miniera di terra rossa come il fuoco, ma umida, che cedeva alla pressione delle dita.
I ragazzi la chiamavano “terrasanta” e la usavano per arrotondare le palline per i propri giochi. In quell’ odore di terrasanta Francesco aveva distinto nitidamente il proprio destino: plasmare la materia. Come dalle montagne di farina le mani laboriose delle donne di casa davano su pani pintau (pane decorato), così dalle dita di Francesco nasceva la vita, e non accadde diversamente quella volta in cui la Madre dell’Ucciso aveva accettato di prendere forma da sue mani. Era il 1906 e Ciusa decide di narrare in pietra la poesia di un lutto personale. Traduce in scultura il canto funebre de “sa ria” della vecchia e sconsolata Grazia Puxeddu, che morirà prima di veder trionfare la sua odissea di dolore a Venezia. Ciusa confiderà all’amico Remo Branca l’antefatto dell’opera, portando il sassarese sul luogo del massacro, Funtana ‘e Littu.
La mattina dell’omicidio Francesco assistette al dolore sacro e impotente della madre di Mauro Manca ormai cadavere sotto i colpi della faida barbaricina. Il giovane bellissimo e conosciuto in tutta Nuoro era steso supino sul campo di grano, con le braccia aperte come Cristo pronto ad accogliere le lacrime della madre pietosa nella triste melodia di morte de s’ attitu. La teatrale sofferenza di Grazia sedusse lo scalpello di Ciusa ma non sopravvisse a quel dolore tanto da farsi immortalare nella pietra, ne ispirò l’opera per metà. La vera modella dell’opera è Elena Selloni Luche, suocera di suo fratello Domenico. Furono mesi di isolamento totale per l’anziana che chiusa nel suo ostinato silenzio aveva accolto la missione di dare vita al dolore luttuoso della madre di Funtana ‘e Littu. Raccolta davanti al camino, dove le fiamme del leccio davano ristoro nel freddo di quella modesta ma linda abitazione, Elena accoglieva e trasmetteva il lamento del poeta che riuscì a far cantare la pietra.
UN VIAGGIO PER LA CONOSCENZA DI SE’ DI FRANCESCO CIUSA: RIAFFIORA LA LEGGENDA DELLA MADRE DELL'UCCISO
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Feci la tesi del diploma