di Ennio Porceddu
Ai mali dell’Isola, altre illegalità si affacciavano prepotentemente, uno di questi era il banditismo. Le cronache raccontano che dopo la concessione della Sardegna ai Sabaudi, la nostra terra era in mano ai banditi. Un fenomeno che gli amministratori e i funzionari Piemontesi non esitavano a generalizzare “tutti i sardi sono delinquenti”. Quando si parla di banditismo Sardo bisogna innanzitutto ricostruire un aspetto molto importante della storia della Sardegna, ma anche prendere in esame un triste fenomeno, che è spesso al centro della stampa e dell’opinione della collettiva nazionale e internazionale. Il problema del banditismo, e più in generale la criminalità rurale, com’è noto, non è un problema nuovo. Nel medioevo, durante la dominazione spagnola e, principalmente nel periodo sabaudo, il potere dovette combattere questo fenomeno con diversi mezzi tra i quali con la repressione militare per fermare le attività delittuose e punirne i delitti, cercando di frenare l’omertà del popolo. Queste iniziative, però, non risolvevano il problema, poiché alle radici del banditismo e delle varie forme di criminalità c’erano motivi di ordine economico, sociale e culturale difficile da sradicare per cui non potevano essere rimossi con il solo intervento militare.
Anche a metà degli anni ’60 del secolo scorso, nell’Isola il banditismo era molto accentuato. Allora il nostro governo pensò di inviare in Sardegna i “Baschi blu”, militari che dovevano controllare le zone più impervie del territorio nuorese e in particolare barbaricino alla ricerca di banditi. Per noi sardi questa mossa governativa sembrava un eccesso, allora nel 1967 chi scrive (giovanissimo), mandò una lettera di protesta al settimanale milanese “ABC”, ma indirizzata al governo centrale, dicendo che il banditismo non si debellava con i soldati, le armi, ma con una preventiva e attuazione di più scuole, più cultura, più lavoro. La lettera suscitò nella redazione un certo interesse e fu pubblicata in apertura della seconda pagina della rivista il 29 ottobre 1967. “Sardegna: L’istruzione contro il banditismo – Qui in Sardegna non ci servono i Baschi blu. Non è con le armi che si sviluppa una società moderna, ma con un’adeguata organizzazione della pubblica istruzione, non solo nei grandi centri, ma in tutti i paesi dell’Isola. E’ necessario creare posti di lavoro, dare un’occupazione a tutti. Ci sono molti giovani in possesso di diplomi, attestazioni e specializzazioni che non riescono a inserirsi nella società, perché nessuno si preoccupa di loro, di dar loro un lavoro. Qui in Sardegna i datori di lavoro prendono alle loro dipendenze gente del continente, nonostante ci siano nell’Isola persone capaci e talvolta migliori. Noi sardi, invece, dobbiamo emigrare per trovare un tozzo di pane per vivere e inserirci in una società che non è la nostra, mentre potremmo servire la nostra terra, Gli italiani e il governo dovrebbero ricordare che noi sardi facciamo parte dell’Italia come tutti gli altri. Se lo facessero, non ci costringerebbero a emigrare, migliorando la nostra vita nell’isola, la bonificheremmo anche moralmente. Il banditismo in Sardegna si combatte con l’istruzione, con il miglioramento delle condizioni di vita e con il lavoro, non con le armi”. Anche a Siliqua tra l’ottocento e metà novecento, fiorì il banditismo e il brigantaggio: bande di fuorilegge che infestarono il territorio, composto prevalentemente da sfaccendati che occupavano il tempo andando a rubare nelle case, e quant’altro, impegnando, non solo i carabinieri, ma anche le guardie barracellari perché spesso colpivano le proprietà agricole, sradicando alberi. I proprietari danneggiati, per paura di ritorsioni da parte di questi delinquenti, non presentavano denunce. In paese regnava l’omertà: molti sapevano, ma nessuno parlava. A nulla servì la nomina di un delegato perché s’impegnasse nel compito di ripristinare la legalità, nonostante la banda era nota perchè formata da pochi elementi. Uno di questi, fu il parroco di Siliqua un certo Serapio Bachis o Baquis (1793-94) che si pose a capo di una banda che, emulando il Far West, assaliva le diligenze, depredandole e uccidendone i passeggeri. Quando le forze dell’ordine, finalmente lo catturarono, scoprirono con grande sorpresa, che si trattava del loro sacerdote. Portato in processo lo condannarono a morte, ma per l’intervento della curia, i giudici gli comminarono la pena in carcere a vita. Il fatto fu poi menzionato da Emilio Lussu nel libro “Il cinghiale del Diavolo”. Ma c’era chi subiva un certo fascino del bandito. Antonio Gramsci, era uno di questi, ma anche Sebastiano Satta, avvocato penalista di Nuoro, amico dei socialisti sassaresi, giornalista e scrittore che quasi un secolo fa alle gesta degli avi di Cubeddu dedicò un Vespro di Natale. Dai suoi canti barbaricini: «Incappucciati, foschi, a passo lento, tre banditi ascendevano la strada […] ai banditi piangea la nostalgia. E mesti eran, pensando al buon odore. Del porchetto e del vino, e all’allegria. Del ceppo, nelle lor case lontane». insomma scriveva il Satta: “belli e feroci”.
E molto probabile che questo paese e il suo nome siano carichi di storia. Nel lontano passato il centro abitato risultava situato alla fine della laguna di Santa Gilla e di certo sulla riva di questa, prima che venisse interrata dai detriti dei fiumi Mannu e Cixerri. Si intravede che Assemini costituisse l’approdo piu avanzato verso la pianura del Campidano e la vallata del Cixerri. La grande antichita e l’importanza di Assemini nella Sardegna antica e in primo luogo dimostrata dal ritrovamento nel suo territorio di numerosi e importanti reperti archeologici, fra cui uno dei 17 talenti di rame a forma di pelle bovina distesa, di matrice egiziana o cipriota o cretese, e inoltre una iscrizione in geroglifici egizi c’e da supporre che questo nome di divinita abbia subito un processo di adattamento alla fonologia greca e dopo a quella latina, sino a trasformarsi, attraverso la forma
Conosco bene Siliqua, la seguo da tantissimi anni. Su Siliqua e il castello ho scritto diversi articoli e due libri.