di Sergio Portas
Bisognava proprio andassi all’”Utopia” di via Marsala a Milano per imbattermi nel ritratto di Lenin in cravatta rossa e pizzetto regolamentare (ma sotto di lui anche un De Andrè in bianco e nero), alle altre pareti solo libri e ancora libri. Stasera ne presenta uno anche Massimo Loche, a madrina Eva Cantarella, quest’ultima a sua volta ne ha scritti a decine che sa di greco e di latino da insegnarlo in svariate università di mezzo mondo, dopo essersi laureata alla statale di Milano e passando poi per Berkeley e Heidelberg giusto per specializzarsi un po’, non si contano i saggi che ha pubblicato sul diritto e su aspetti sociali del mondo greco e romano ( nel 2003 ha vinto il “Bagutta” col suo: “Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto), troppo brava! Ciampi la nominò “motu proprio” “Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana” l’anno prima. Massimo Loche è solo giornalista, si fa per dire naturalmente, che è di quelli di razza, cronista estero in tempi in cui un telefonino come noi lo concepiamo non si poteva vedere che in una serie di Star Trek (la serie televisiva è cominciata nel’66), dal ’69 al 72 è stato corrispondente da Algeri per l’Unità, la guerra d’Algeria appena dietro le spalle (finì nel ’62) , a soli otto anni da Dien Bien Phu dove ebbe inizio il crollo dell’impero coloniale francese e il Vietnam si divise in due al fatal 17° parallelo. Il nome del generale Giap dovettero poi imparalo presto anche gli americani e le loro truppe di “liberazione”. Su “Repubblica “ del 1° marzo scorso un altro grande vecchio del giornalismo italiano, Bernardo Valli, un mito per me (ognuno si sceglie i miti che vuole!) ne scrive in questi termini: “…Vidi una grande parata in omaggio all’eroismo o meglio al coraggio con cui avevano combattuto a Dien Bien Phu. La legione aveva resistito. Era tutta schierata davanti al Maresciallo di Francia Juin. Vidi un mondo che stava finendo, almeno per come lo avevo immaginato. Vidi i mutilati schierati in bella vista. Segno delle ferite e del sacrificio. Del prezzo che era stato pagato. Percepii il gusto per il macabro che la Legione Straniera aveva spesso esibito. E alla fine pensai che lì, in quel piccolo mondo, dove un ladro di polli poteva trasformarsi in soldato vero, si fabbricava qualche eroe e molti mitomani. Quell’anno, era il 1954, lasciai la Legione”. Massimo Loche è arrivato al giornalismo con un percorso meno travagliato, è nato a Sassari nel ’40 ma i suoi sono di Uta, buona borghesia, babbo dirigente del Banco di Sardegna e mamma figlia di ispettore delle imposte, studia al liceo a Ozieri (vi fonda un giornale con Ninetto Marongiu e Placido Cherchi), si laurea a Roma in Scienze politiche. In politica col PCI inizia la carriera prima a “Città Futura” e poi all’”Unità”. Racconta qui che al rientro dall’Algeria il giornale gli propose una serie di servizi dal Vietnam, dove la guerra sembrava essere al lumicino, roba di qualche mese tuttalpiù, vi sarebbe rimasto per ben quattro anni. “ L’esperienza fondamentale è stata quella del Vietnam. Dove si concluse una guerra che era durata trent’anni. Lavoravo al buio, mandavo l’articolo ogni giorno per telegrafo e non avevo un ritorno da Roma. Decidevo quindi in maniera autonoma la lunghezza del pezzo. All’ufficio della “France Press” i giornali arrivavano con una settimana di ritardo. I vietnamiti hanno preso molto dai francesi senza nulla rinunciare della loro cultura. Dopo Dien Bien Phu ( a proposito si pronuncia Fu) aprirono un liceo francese ad Hanoi con due presidi: uno francese e uno vietnamita. Il preside viet fu il mio professore di vietnam per quattro anni, una lezione al giorno, in cui riuscii ad imparare ben poco della lingua ( il mio prof aveva una cultura sterminata e di tutto parlava tranne che di grammatica) tanto che continuai ad esprimermi a gesti, specie nelle mie compere nei mercati rionali. Del resto basta indicare la frutta che vuoi e quanta ne vuoi per cavartela sempre. Ero un ragazzo di trentadue anni e fino ai trentasette quella fu la mia vita. Quando tornai ad Hanoi dieci anni dopo i vietnamiti stavano meglio, non c’era più la miseria dignitosa di un tempo. Allora si percepiva la fame, gli interpreti di noi giornalisti non mangiavano che un po’ di riso con verdure, 200 grammi di riso, carne una volta al mese. Loro stavano comunque meglio ma io non mi ci trovavo più. Una strisciante corruzione, poca libertà di stampa, l’evoluzione del Vietnam ha avuto del paradossale, fecero una scelta di alleanze col criterio della lontananza, quindi i sovietici perché più lontani dei cinesi, da cui però copiarono il modello di sviluppo, anche se in cuor loro si credono un “piccolo dragone”. E oggi sono tornati gli americani e i loro capitali.” Massimo Loche, alla fine della sua avventura, decide che per tornare a casa prenderà il treno: “Per via di terra. In treno da Hanoi a Mosca” (Voland editore) così si intitola il suo libro, non un reportage, scritto com’è nel ’94 e pubblicato solo oggi, quindi un libro di ricordi, di un viaggio fortemente voluto che subito si scontrò col sospetto dei vietnamiti che proprio non riuscivano a capire come un giornalista occidentale potesse preferire il treno all’aereo. Anche la Cantarella non lo definisce libro di viaggi: “Massimo non è un Erodoto che usa descrivere da antropologo, senza dare giudizi di valore, senza partecipazione, tanto che e difficile capire cosa pensa dei popoli che incontra nel suo girovagare per il mondo conosciuto. Massimo no, che cosa pensa si capisce benissimo, non solo dei cosiddetti “barbari” ma anche della copia dei francesi supponenti che tutto vorrebbero fotografare”. A differenza di un loro connazionale, diplomatico di professione (non vi farò il suo nome perché,forse ancora in vita dice Loche) che aveva girato la Cina a cavallo ed era stato prigioniero in Corea. “Non è un libro giornalistico, per sua natura un articolo di giornale deve essere effimero, la carta su cui è stampato ottima il giorno dopo per comprare pesci al mercato. Avendolo scritto a memoria mi sono permesso piccole bugie, alcune digressioni. Il treno diventa di per sé un microcosmo di persone, ognuno diventa personaggio.” Essere famosi giornalisti comporta anche che tra il pubblico ci siano amici di vaglia, Tullio Pericoli, pittore e disegnatore di fama internazionale, interviene sull’argomento treni dicendo che essi ci mostrano una parte del paesaggio solitamente impresentabile: il dietro delle case come le vivono i cittadini, loro negano che i treni possano vederli nei loro scorretti comportamenti, quindi buttano di tutto e non se ne vergognano. Massimo lui si porterebbe naufrago nell’isola deserta: un atlante “Zanichelli” e un orario ferroviario, sicuro di poter continuare a girare per l’universo mondo con la fantasia. Come era solito fare da bambino. Non posso non chiedergli un ricordo delle ferrovie sarde, provocandogli naturalmente un moto d’ilarità: “Il mio primo approccio ai treni sardi nel’44 a quattro anni, da Decimumannu (la stazione più vicina a Uta dove stavano i miei) a Sassari con una Littorina Fiat, si cambiava a Chillivani per prendere un trenino per Nuoro e Ozieri. Forse fu allora che mi prese questa febbre per il viaggio lento. Anche ora che viaggio per la Sardegna a presentare il libro uso il treno e mi pare che , da allora, poco sia cambiato. Da Sassari fino ad Oristano non sale mai un’anima viva, più in giù c’è un certo movimento e da San Gavino un incredibile doppio binario. Io voglio bene ai treni e voglio bene alla Sardegna, quindi sono contento che, come ho sentito, anche qui arrivi il treno veloce”. Come dargli torto? Ogni guspinese come me che abbia avuto la sorte di prendere la littorina a San Gavino verso Porto Torres d’estate negli anni ’60-70, col dilemma interiore di aprire o serrare il finestrino per difendersi da “’u bent’e sobi” che avrebbe ammazzato un tuareg del deserto, sa di cosa sta parlando Massimo. In Sardegna dopo aver collaborato per Rinasci
ta e l’Espresso nell’ 88 accetta di dirigere l’Unione Sarda ma dura poco, giusto un paio d’anni, alla proprietà non andava giù la linea politica che avrebbe voluto dare al quotidiano. E allora va al TG3 come redattore esteri, corrispondente da New York, nel 2000 è vicedirettore di Rainews, in pensione dal 2005. Sposerebbe, sono sicuro, l’idea di giornalismo di Valli: “E’ prima di tutto un servizio. Una cosa pratica. Informa: dagli orari delle farmacie a quello che accade in una guerra. E’ un lavoro artigianale. Non letterario.” Sono d’accordo con loro.
Il tuo articolo ci ha fatto venire la voglia di leggere il libro di Massimo Loche, che compreremo al più presto. Dal tuo commento abbiamo capito il suo carattere, le sue idee politiche, i suoi interessi e il suo modo di descrivere un viaggio. Ne riparleremo quando avremo letto il suo libro.
Grazie e un arrivederci presto
Caterina R. e Nino