“NOVANTADUE – FALCONE E BORSELLINO, VENT’ANNI DOPO”: INCONTRIAMO A CAGLIARI CLAUDIO FAVA, GIORNALISTA, SCRITTORE E PARLAMENTARE

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino


di Maria Luisa Secchi

“Novantadue – Falcone e Borsellino, vent’anni dopo” di Claudio Fava. La pièce in scena la scorsa settimana al Teatro Massimo di Cagliari sotto le insegne del Cedac Sardegna. Allestimento e regia sono di Marcello Cotugno, produzione Bam Teatro. Protagonisti Filippo Dini, Giovanni Moschella e Fabrizio Ferracane. Lo spettacolo riprende il filo della storia a partire da quei giorni di isolamento forzato sull’Isola de L’Asinara, durante i quali i due magistrati completarono l’atto d’accusa per il maxi processo contro la mafia. Sono le cronache di una guerra annunciata che sfocia nella trattativa stato-mafia, al centro di indagini e processi. «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono tra le vittime di quell’attacco al cuore dello stato», così come spiega Claudio Fava, giornalista, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia  e scrittore, che nella lotta alla mafia raccoglie il testimone del padre, Pippo Fava, fondatore de “I siciliani”, assassinato nel 1984 da Cosa Nostra a Catania.

Da quali presupposti nasce la pièce? Il testo nasce dalla volontà di raccontare la dimensione umana di Falcone e Borsellino. La vita che è un miscuglio di sentimenti assolutamente umani e normali. Vitalità, solitudine e profondo senso del dovere. Il sentimento d’amicizia che ha legato queste due persone e che le ha accompagnate nella fatica del lavoro. È essenziale capire non solo come morirono, ma soprattutto il perché del loro epilogo. Non si tratta di uno spettacolo d’occasione sulla scia delle diverse “celebrazioni” alla memoria bensì un omaggio per chi le ferite della Mafia le ha vissute in prima persona. C’è bisogno di elementi veri in grado di ridare freschezza a quelle vite che furono anzitutto alla ricerca di normalità. Questa dimensione trova spazio e forma nella pièce. Il racconto di questo rapporto umano. Dai giorni in cui scrivono l’Istruttoria del Maxi Processo, “reclusi” nell’Isola dell’Asinara fino all’epilogo di Capaci e di via D’Amelio. Un rapporto di amicizia che non può essere cristallizzato in un fermo immagine. Il mio lavoro nasce dalla volontà di dare nuova enfasi a questo sentimento del quale non sempre ci è arrivato tutto il senso e la forza.

Perché il 1992 viene definito un anno tanto cruciale? È stato un momento cruciale per la lotta contro la criminalità organizzata, che ha reagito con violenza. È il preludio alla stagione cruenta delle bombe, le stragi di Capaci e di via d’Amelio, le minacce e gli omicidi di uomini politici, gli attentati a Firenze e a Milano e quello, poi fallito, allo Stadio Olimpico di Roma. È cruciale perché in quel momento abbiamo acquisito la consapevolezza che il progetto di Cosa Nostra è eversivo. La posta in gioco è altissima: a rischio c’è la stessa democrazia. La peggiore eredità di quel momento storico, della quale abbiamo avuto consapevolezza nel corso del ventennio trascorso, è la stagione di rimozioni, di verità sospese o parziali. In questo senso la storia dell’Italia rimane tutta da scrivere.

Si metterà il punto sulle stragi e sulla Trattativa? La Trattativa c’è stata. Occorre ancora far luce adeguatamente a quale livello e quanto abbia pesato sul destino dell’Italia. Sono ottimista. Si arriverà alla verità. Una verità storica, civile. La stessa verità assoluta che Falcone e Borsellino hanno perseguito e ricercato. Il peso di questa ricerca sta oggi sulle nostre spalle. Esistono diversi esempi di persone che, in concreto, oggi offrono il proprio impegno di contrasto alla mafia, con eccellente efficacia. Credo tuttavia che ci sia una temperatura troppo bassa nel Paese, occorre recuperare sensibilità, attenzione e urgenza nel considerare la lotta alle mafie e la conseguente questione morale, come priorità per la democrazia.

Usura, estorsioni, infiltrazioni nelle pubbliche amministrazioni e negli appalti. Questi ed altri, gli argomenti sviscerati dalla Direzione Investigativa Antimafia nella relazione presentata di recente al Parlamento. Cosa ci dice di nuovo sulla mafia? Ci dice qualcosa di importante sulle mafie più che sul territorio. Ci dice che le mafie sono organizzazioni criminali straordinariamente spregiudicate che hanno un modello culturale molto moderno: mettere radici dove possono costruire guadagno, facendo leva sulla debolezza del sistema imprenditoriale e sulla connivenza di quello politico. Abbiamo sottovalutato la loro capacità di penetrare e di mimetizzarsi nel tessuto economico legale ma abbiamo anche ritenuto che esistesse una soglia di salvaguardia morale più alta.

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