di Omar Onnis
La visita in Sardegna della presidente della Camera Laura Boldrini rivela per l’ennesima volta l’obiettiva gravità della nostra situazione politica e la fatica a dotarci di chiavi di lettura efficaci, di una prospettiva coerente e costruttiva.
Lo scenario è quello tipico dell’accoglienza di un rappresentante del Potere in una provincia sottomessa. Un agitarsi frenetico di podatari, facenti funzione, intermediari, arrendatori, lacché che devono barcamenarsi tra la voglia di ostentare fedeltà assoluta al padrone e la necessità di pretendere qualcosa, per salvare le apparenze davanti ai sudditi che rappresentano e governano.
Non stupisce tanto il vuoto pneumatico del discorso della presidente Boldrini. Cosa poteva dire di diverso? Fosse anche ben disposta, moralmente e affettivamente partecipe della nostra condizione precaria, il suo ruolo le imporrebbe un profilo moderato, un discorso di circostanza. In più, come sempre in questi casi, emerge la pressoché assoluta ignoranza della classe dirigente italiana sulla Sardegna. Tra i funzionari sabaudi settecenteschi e un qualsiasi rappresentante della politica italiana odierno grosso modo non c’è alcuna differenza di conoscenza e di atteggiamento.
La presidente Boldrini ha dalla sua un garbo e una capacità di saper stare al mondo che altri non hanno, questo sì. Ma è decisamente poco, rispetto alle aspettative quasi messianiche che qualcuno – sia nella classe politica nostrana sia nella disorientata opinione pubblica sarda – riversa sempre su questo genere di circostanze. Tuttavia lei non ne ha responsabilità e mi piacerebbe che le rimostranze politiche non trascendessero nel puro insulto sessista e nella vacua e inutile volgarità da social media. Tutta roba che ormai non è più giustificabile nemmeno come sfogo occasionale delle proprie frustrazioni. Bisogna imparare a comportarsi e prima di tutto, anche nel dissenso politico più radicale, a riconoscere, pesare e affrontare il proprio avversario. Ma su questo, temo, siamo piuttosto indietro.
Ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di più dai discorsi dei rappresentanti istituzionali sardi, in particolare dal presidente della Regione. Il discorso del presidente Pigliaru invece è risultato una volta di più emblematico della drammaticità della nostra condizione storica. Un discorso contraddittorio e incoerente, scontato in troppi passaggi, modesto quanto a impianto ideale, odiosamente cerchiobottista.
Rivendicare maggiori poteri e maggiore autonomia per la Regione sarda e al contempo chiedere maggiore presenza dello stato sull’isola sono due richieste che non stanno insieme. Come se lo stato in Sardegna non ci fosse fin troppo! Ordine pubblico di tipo repressivo (a vanvera), imposizione fiscale rapace e occupazione militare sono un fardello insostenibile da troppo tempo. La prevalenza dell’interesse nazionale italiano in tutti i settori strategici non è certo in procinto di venir meno. Vogliamo davvero che aumenti il dominio dello stato centrale sull’isola?
A poco vale l’attenuante che un presidente di Regione sia pur sempre una figura istituzionale dello Stato e dunque le sue parole debbano essere commisurate al ruolo, alla circostanza e all’interlocutore. I margini per dare forza politica al discorso c’erano tutti. Ma la forza politica se non ce l’hai, nessuno te la può dare. Non è certo con la proclamazione dell’indisponibilità ad accogliere le scorie nucleari italiane che si può salvare la faccia. Sappiamo bene che si tratta di dichiarazioni puramente retoriche, senza peso, che per altro spostano il focus dell’attenzione pubblica da altri problemi più attuali, concreti e pressanti (come la questione rifiuti+inceneritori, le servitù energetiche, il land grabbing, la premiata ditta cardi&canne, i trasporti interni ed esterni, la devastazione della scuola, la questione linguistica, ecc.).
Purtroppo sappiamo che la politica sarda a livello istituzionale è del tutto impari rispetto al suo compito. Non ha le capacità necessarie e le manca la volontà di incidere veramente sulla realtà. Se lo facesse, dovrebbe mettere presto in discussione assetti di interessi e rapporti di forza che invece è chiamata a garantire e perpetuare. Non ci si può aspettare niente di più dalla giunta Pigliaru e da qualsiasi altra giunta o governo regionale che risponda del suo operato a centri di interessi e di potere esterni all’isola.
Patetica in questo senso suona la sceneggiata propinataci dall’assessore ai lavori pubblici, Paolo Maninchedda. La sua conclamata astuzia questa volta ha probabilmente dovuto cedere davanti all’esigenza di sottolineare in modo esteriore la sua presunta adesione alla prospettiva indipendentista, pagando il pegno minore possibile. Conoscendo la carriera politica dell’assessore, la sua disinvoltura etica, il suo modo di costruirsi consensi, percorsi istituzionali vantaggiosi, potere personale, ci si poteva aspettare qualche mossa meno banale. Mancare all’appello in consiglio regionale in occasione della visita della presidente della Camera e accompagnare tale scelta con dichiarazioni retoricamente altisonanti (e per questo tanto più ridicole) non è degno di una mente così raffinata. A meno che l’attribuzione di raffinatezza non sia solo un fraintendimento abilmente alimentato, una sostanziale sopravvalutazione, accentuata dalla miserrima pochezza del contesto. Chissà.
La verità è che il sovranismo di governo – come è perfettamente evidente – è solo un modo astuto per far valere le proprie scarsissime forze numeriche al fine di ritagliarsi e mantenere una porzione di potere altrimenti irraggiungibile. È una soluzione prettamente tattica, senza alcun ideale, senza alcun’altra prospettiva a sorreggerla che non sia la mera soddisfazione del proprio ego. Niente a che vedere con la necessità della nostra emancipazione collettiva.
Cosa ce ne facciamo della visita della presidente Boldrini, in definitiva? A parte la trita messinscena del pietismo istituzionale verso la derelitta Sardegna, cosa ne ricaveremo? Io credo assolutamente nulla. Se non la conferma della estrema debolezza della nostra classe dirigente, che a sua volta rispecchia la debolezza sociale e culturale della nostra collettività nel suo insieme. Debolezza sociale e culturale che è di gran lunga il problema peggiore da affrontare, molto più complicato e pericoloso della precarietà economica e delle difficoltà materiali.
Il giorno che non dovremo vergognarci in occasione di qualche visita importante in Sardegna sarà il giorno in cui la realizzazione della nostra autodeterminazione sembrerà non tanto più auspicabile quanto realisticamente più vicina.