BEATA ANTONIA MESINA DI ORGOSOLO, LA RAGAZZA CHE LOTTO’ CONTRO LA VIOLENZA


di Federica Ginesu

Lo spirito eterno delle donne sarde è concentrato, come un prezioso distillato, in un piccolo paese cullato dai monti del Gennargentu in cui vibra un’anima ribelle: Orgosolo, terra di leggende incarnate, dove è la storia, e non il mito, a dettare il tempo lasciando che il passato parli di identità mai domata. Tra quel labirinto di viuzze e muri di pietra, oggi animati da murales che sembrano parlare, non c’era solo la violenta disamistade (disamicizia) a cui partecipò Sa Reina, la bandita Pasqa Devaddis, ma anche il respiro della Sibilla curandera Elisabetta Lovico e il coraggio di una semplice ragazza, Antonia Mesina, che aveva preferito la morte al rinnegare se stessa. Figlia della Barbagia, Antonia nasce il 21 giugno 1919 in una famiglia modesta, ma piena di dignità e onore. Il padre Agostino Mesina, guardia forestale non possiede né terre, né bestiame e cerca col suo magro stipendio di sfamare la sua piccola tribù domestica di cinque bambini. La mamma Grazia Rubanu, invece, scalda il focolare di un amore schivo e senza parole, capace però di educare una piccola donna come Antonia che sta sbocciando.  Sin da piccola la giovane Mesina impara, infatti, che la vita è una lotta e che bisogna combattere fieramente per non soccombere. Dorme per terra in un cantuccio, lontana dai genitori e vicino ai fratelli che accudisce mattina e sera. Frequenta la scuola, ma è sempre troppo stanca per studiare e impegnarsi come vorrebbe. Rinuncia a malincuore fermandosi alla quarta elementare: sa che il suo aiuto in casa è fondamentale e decide così di non sottrarsi al suo compito.  Antonia è fiera di sé, ma non ama spiccare, è una ragazza semplice che ama confondersi tra le tante altre ragazze di Orgosolo, scivolando silenziosa nei suoi pensieri. Iscritta alla gioventù femminile dell’Azione Cattolica, cerca di non mancare mai alle riunioni settimanali che l’associazione organizza. Non sempre, però, con suo grande disappunto, riusciva a sfuggire alle faccende domestiche e doveva amaramente disertare quel momento che rompeva la sua amara routine quotidiana.  La religione, per lei che non aveva potuto avere un’istruzione, andava oltre la fede, diventava un motivo di distinzione che l’aiutava a sopportare meglio la sua umile esistenza. Piccola di statura, ma bellissima, Antonia camminava altera, respingendo sprezzante gli sguardi che attirava per strada e rifiutava ogni corteggiamento: “io non mi sposerò mai” diceva spesso alla mamma. Quando il fotografo Ugo Pellis, ospite del padre le chiede di posare con il costume di Orgosolo, Antonia accetta, perché obbligata, ma rifiuta di farsi ritrarre in strada. Tra le pareti del soggiorno la luce la immerge: il lionzule adorna il capo, mentre l’orbace della gonna plissettata sfiora terra e il rosso del giubbino scalda l’incarnato chiaro: un abito da sposa che le cade a pennello, ma che Antonia non indosserà mai. E in un lampo arriva il 17 maggio 1935. Un vento gelido spegne i primi tepori di maggio, Antonia infila il gilet di lana del babbo e bussa alla porta di casa dei Castangia: deve andare a prendere la legna per cuocere il pane e vorrebbe compagnia. Non va mai sola in quegli oscuri e fitti boschi dove spira la solitudine e si nasconde l’ignoto. Annedda, l’amica, non c’è, è andata dal lattaio, Antonia la incontra per strada e insieme si dirigono alla foresta di lecci di Ovadduthai.  Grazie all’esperta di storia femminile sarda, la professoressa Eugenia Tognotti che ha dato vita all’instant book “Una Santa a Orgosolo: Storia di Antonia Mesina” (ed.Edes), conosciamo quasi ogni sfumatura di quell’amaro appuntamento col destino.

LA STORIA. Mentre le ragazze percorrono la strada mulattiera, l’inquietudine simile a un’ombra cupa rapisce la consueta spensieratezza di Annedda: la sera prima ha sognato una donna che veniva uccisa e un grave pericolo che la minacciava, era persino caduta dal letto per lo spavento. Lo racconta ad Antonia che sorride, cresciuta in quei luoghi così inospitali, lei non ha mai avuto paura. Ma sulle loro tracce c’è già il male. Annedda nota sulla strada un ragazzo che zoppica: Ignazio, il figlio di tziu Drangalau, intento a parlare con il suo compagno di scuola Pietro. È un attimo: parte uno sguardo, ma le ragazze tirano dritto e proseguono il cammino. Non sono ancora le dieci, quando, arrivate a destinazione, incominciano a raccogliere la legna. “Anna, Anna, Babbu, Babbu”. Un urlo all’improvviso aveva squarciato il cielo e il sole, per un attimo, era esploso. Annedda si era girata spaventata e aveva visto la sua amica Antonia che si dibatteva tentando di liberarsi dall’abbraccio brutale di un ragazzo che cercava di trascinarla oltre la radura. Un demone con gli occhi lampeggianti di ferocia. Ignazio Catgiu, ventunenne di Orgosolo, si era nascosto nella macchia pronto a balzare come una belva sulla sua preda. Ignazio è un reietto, figlio di una famiglia poverissima su cui grava l’infamia, cammina curvo incespicando perché ha una gamba più corta dell’altra, vive da eremita nel suo paese in cui nessuno lo stima, né lo considera. Per Antonia è un perfetto sconosciuto che irrompe nella sua vita all’improvviso. Antonia si divincola e scappa, non vuole arrendersi alla cieca violenza che taglia il fiato e irrigidisce la corsa. Nel frattempo Annedda, che non era che una bambina appena tredicenne, impaurita si mette a correre per la ripida discesa a cercare aiuto disperata.  Ignazio raggiunge Antonia e la assale di nuovo; lei cerca di sprigionare tutta la sua forza, ma lui incomincia a colpirla, avvinto dalla rabbia, con sassi e pietre. 75 colpi implacabili. Una lapidazione, un orrendo castigo da infliggerle, perché lei è una donna che non si è piegata al suo volere, si è opposta, ha combattuto e ha scelto di preservare se stessa. Ignazio la nasconde nella fitta boscaglia e torna ad Orgosolo. Annedda, dopo aver parlato con le donne del paese, decide di andare in caserma, ma in un primo momento non fa il nome del presunto colpevole. Nel frattempo uomini e carabinieri cercano la piccola. Il corpo di Antonia è nel bosco, custodito da una selva di rovi. Lì giace una piccola bella addormentata che non si sveglierà più e la natura, tutto intorno, sembra cantare un triste pianto: inerme ha assistito al massacro senza poter proteggere quella creatura innocente.
Il giudice Francesco Coco si reca sul posto e raccoglie le prime testimonianze, mentre il padre di Antonia comincia le sue indagini parallele a quelle della giustizia. Dopo il funerale di Antonia un silenzio che viene da un dolore antico scende su Orgosolo e la voce che il colpevole sia Ignazio Catgiu comincia a diffondersi, per poi divenire incontrollabile.  Annedda si convince a testimoniare e Ignazio viene arrestato: negherà, non confesserà mai pienamente e condannato a morte verrà fucilato due anni dopo. Così la legge universale della giustizia faceva il suo corso riequilibrando instancabilmente le fratture e le contraddizioni tra azioni costruttive e distruttive, tra vita e morte. Per la Chiesa Antonia è la nuova Maria Goretti che ha difeso la sua purezza, modello di speranza e fede cristiana. Il 4 ottobre Papa Giovanni Paolo II la proclama beata perchè “Sin da piccola Antonia ha sperimentato la durezza della sua terra e, a soli sedici anni, si è trovata a vivere il suo sì eroico alla beatitudine col sacrificio supremo”. Giovane ragazza, libera da compromessi è un eterno modello di coraggio che non si sottomette alla violenza, perché la donne dell’isola di granito sono come l’asfodelo che punteggia di bianco i prati della Sardegna: fiore bello e quasi evanescente, ma anche resiliente con uno stelo così robusto che ferisce chi tenta di portarlo via strenuamente dalle sue radici.

* La Donna Sarda

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