di Maurizio Bertera
Non sono pochi i giovani cuochi italiani che si stanno facendo onore nel mondo. Roberto Flore, 33 anni, sardo di Seneghe, è uno di questi – con una particolarità: è l’head chef non di un locale ma del Nordic Food Lab, l’avamposto della ricerca culinaria nel mondo. Creato nel 2009 da René Redzepi insieme all’ex-socio Claus Mayer e all’Università di Copenhagen, per la sua importanza viene finanziato da enti privati e pubblici. Sembra impossibile ma Flore, dottore in agrotecnica e cuoco formatosi alla grande scuola di Sergio Mei, è entrato al NFL grazie a un prodotto della sua terra, il Casu Marzu, formaggio colonizzato dalle larve della mosca e che non può essere commercializzato per le norme comunitarie, “Sono entrato in contatto con due ricercatori arrivati nel mio paese di origine. Abbiamo visitato pastori e allevatori che vivono sul Montiferru, assaggiato e realizzato ricette con diverse qualità di Casu Marzu. È qui che si è presentata l’occasione di fare uno stage di qualche mese a Copenhagen. Da anni seguivo affascinato da lontano i successi del Noma: appena messo piede sulla barca mi sono innamorato. Era un sogno che si avverava”. Dopo cinque mesi, ecco la promozione sul campo, nonostante la problematica di un inglese – lingua ufficiale del NFL – parlato al minimo. “Forse è stato proprio questo a darmi più motivazione. L’ambiente è incredibile, giovane e con grande spirito di gruppo. Ci sono ricercatori di tutto il mondo in gran parte con dottorati in chimica e scienze sensoriali. Arrivano qui da Yale, Oxford, Sorbona ma anche Pollenzo, e s’interfacciano con chef e produttori per uno scambio continuo e proficuo. Ma vorrei sottolineare che non lavoriamo per il Noma, che ha la sua test kitchen, bensì per la Nordic Modern Cuisine e la cucina in generale”. Il principale obiettivo del Nordic Food Lab è infatti lavorare e investigare sul gusto, sezionando e scomponendo ogni alimento commestibile – in primis quelli che si trovano in Scandinavia – per capirne i meccanismi nascosti, le barriere fisico-chimico-culturali di percezione dei sapori. Muffe, lieviti, batteri: non c’è tabù, giustamente, e quindi anche cavallette, insetti e le famose formiche sono pane quotidiano per il team di Flore. Va detto che nel laboratorio, nessuno è più cuoco di Roberto che ha iniziato a cucinare con la nonna (“attualissima, visto che faceva un sacco di piatti recuperando scientificamente gli avanzi, a partire dal pane” ricorda) e ha un palato superiore. E lo si è visto nell’ultima edizione di Identità Golose dove – insieme a un gin di formiche distillate, spiazzante ma buonissimo per la cronaca – ha presentato uno dei piatti più spettacolari e originali della rassegna: Visioni del Bosco, a base di cuore crudo di capriolo da lui cacciato (“riforestazione e caccia consapevole sono concetti che per me vanno d’accordo” spiega), foglie fermentate e bacche scandinave. Redzepi dice sempre che per ogni piatto servito al Noma ce ne sono cinquanta che finiscono nel secchio dell’umido perché sono immangiabili. Vale anche per le vostre ricerche? “No: quando non si trova la soluzione, la ricerca viene messa da parte per il momento. Finisce in quella che abbiamo chiamato simpaticamente la stanza degli orrori: Ci sono casi in cui dopo cinque anni si riprende la ricerca e si fa bingo, altri che invece vengono al primo colpo ma non si ripetono: per esempio, avevamo trovato un ottimo FauFois di fagioli fermentati e in seguito non ci siamo più riusciti”. Non le manca la Sardegna? Pensa di tornarvi a breve? “Non mi sento un sardo che se n’è andato da casa, semmai uno che ama viaggiare e vive per la ricerca. Per ora sto bene a Copenhagen”. Così parlò Roberto Flore, che partendo dalle montagne di Oristano e dalla passione per le biodiversità, sta studiando cosa si potrà mangiare e bere tra qualche anno.