Alla coscienza critica non è sfuggita la contraddizione stridente, al prossimo Expo di Milano, tra il tema del cibo “nutrire il pianeta”, e la sponsorizzazione delle più grandi multinazionali alimentari, le americane Coca-Cola e Mc Donald’s, la svizzera Nestlé (mediante una dei suoi tanti marchi), fortemente contestate dalle associazioni e dalla parte critica dell’opinione pubblica per la loro condotta considerata poco etica e per i loro prodotti poco salutari. Solo della Nestlé, la più grande Major dell’alimentazione in assoluto al mondo, si ricorderanno le forti polemiche per la somministrazione del latte in polvere in Africa, con le conseguenze devastanti di cui tanto si è parlato. L’Esposizione Universale, manifestazione internazionale che mostra la potenza del mercato capitalistico, patrocinata dalla BIE, l’ufficio internazionale dell’esposizioni, si tiene ogni 5 anni in un paese diverso. Che possa trasformarsi nella filiera dei prodotti locali ed equo – solidali, mi sembra piuttosto illusorio. Spesso poi ci si sveglia, comodamente, solo quando le cose accadono in Italia. L’Esposizione Universale, come la conosciamo oggi, è nata nella metà dell’800 nel Regno Unito, ovvero nel paese che i filosofi della condivisione ritengono la locomotiva storica di quella filosofia di vita capitalistica che trasforma la società in un immenso mercato senza valori. Ed infatti nel primo periodo l’Esposizione Universale sembrava la sfida tra due vecchie rivali, Londra e Parigi, capitali dei due più grandi imperi coloniali, per mostrare al mondo chi avesse più muscoli mercantili. Poi sono arrivati gli americani e tutti gli altri paesi capitalistici. Prima di Milano è stato il turno di Shangai, con un tema a favore della vivibilità nelle città (!), e dopo Milano spetterà a Dubai, con un tema “futuristico” (?). Ditemi se in tutto questo non c’è l’anima più ipocrita del capitalismo mondiale. E tuttavia anche noi, di questa ipocrisia, siamo partecipi. Quando nel corso di queste discussioni, anche fortemente critiche, se non addirittura irragionevolmente drastiche, nei confronti dell’Expo di Milano, chiedo di alzare la mano, “chi non ha in casa un prodotto di qualcuna di quelle multinazionali”, cala improvvisamente il gelo. Se andiamo a vedere la sfilza dei marchi di proprietà della Nestlè, o della Coca-cola, o di qualunque altra multinazionale che sfrutta il terzo mondo, difficilmente riusciremo a dirci estranei completamente. Come sostengono Naomi Klein e altri scrittori, studiosi e attivisti, la rivoluzione deve partire dal basso, dal consumatore. Nel mondo sta crescendo un movimento di consumatori consapevoli, di nuove filosofie di vita, si pensi all’agricoltura naturale e biologica e alla permacultura, si pensi al movimento della decrescita, alla filosofia della condivisione, che puntano sulla qualità della vita, sulla autenticità del gusto e sulla salubrità dell’ambiente e delle cose che mangiamo, che hanno in comune il fatto, per la prima volta, di non aspettarsi nulla da chi comanda. Specie dal cuore del sistema mercantile e capitalistico, come sono, in genere, le esposizioni universali. L’unico modo per limitare lo strapotere dei monopoli, è quello di non comprare dai loro marchi. Lo so che non è facile, lo so che ci sono le esigenze di risparmiare, lo so. E so che non tutto quello che viene dalla filiera del locale e dell’equo-solidale è garantito. E so che spesso si cerca il pelo dell’uovo in queste filiere perché, tutto sommato, criticare è facile ma essere coerenti un po’ meno. E non dico di diventare matti leggendo tutte le etichette e rinunciando a tutti i prodotti delle grandi industrie, quasi la totalità di quelle presenti nel supermercato. Nessuno ne avrebbe il tempo e probabilmente neppure il portafoglio. Ma un minimo di orientamento etico, anche nell’acquisto, è un primo passo verso una critica fattiva e consapevole e verso la nostra coerenza interiore. Naturalmente la cultura del consumatore non si cambia dall’oggi al domani. E’ chiaro che se la “rivoluzione silenziosa” fosse limitata alla nicchia della coscienza critica, la pressione nei confronti di aziende che hanno fatturati spesso maggiori di intere nazioni di media grandezza, non sarebbe molta.
Una delle iniziative utili è questa:
Intellettuali, operatori dell’informazione e ambientalisti sardi da qualche anno stanno denunciando la sconfortante prospettiva di un’isola ridotta a colonia energetica, privata delle proprie vocazioni agricole per vedere destinati i propri suoli a riserva di carburante. Cardi, canne e chissà quali altri vegetali da bruciare per trasformarli in energia, ad uso delle multinazionali. A parte qualche voce isolata, questo scenario è considerato negativamente dalla quasi totalità dei commentatori. Sono d’accordo, a patto che si faccia un’analisi complessiva del problema. Mi si permetterà un’obiezione da uomo della strada. Queste terre, nel sassarese o nel Sulcis, le multinazionali dell’energia intendono occuparle abusivamente? Se ne sono appropriate con qualche raggiro? No. Le affittano da sardi pienamente consapevoli, per i quali questa occasione è l’unica vera possibilità di avere un reddito da quelle porzioni di campagna spesso incolte.
Oggi, nel 2014, i sardi affittano o vendono le loro tanche come, nel 1962, altri sardi cedettero i loro terreni perché imprenditori stranieri vi potessero edificare la Costa Smeralda. È passato mezzo secolo come nulla fosse: allora come oggi, molti sardi pensavano a sbarazzarsi delle loro terre, considerando quell’opportunità una manna dal cielo. Sbagliano? Mettetevi nei loro panni, prima di giudicare. La terra evoca sofferenza e schiene spezzate al gelo o sotto ad un sole impietoso. Evoca sforzi inutili per raccolti spesso miseri. Io non so piantare un orto né una vigna. Mio padre me lo avrebbe anche insegnato, ma io appartengo ad una generazione che si illudeva di risolvere la vita stando seduta dietro una scrivania. E naturalmente quest’arte, non conoscendola, non ho saputo trasmetterla a mio figlio. Oggi penso che se recuperassimo il nostro rapporto con la terra, forse questa facilità nello svenderci al primo arrivato non ci apparterrebbe. Un pezzetto di terra che offre pomodori, patate, cipolle, frutta non è solo fatica: è anche cibo, è anche un pezzetto di libertà in più, è un briciolo di sicurezza in tempi di magra. Si diffondono gli orti civici ed io sto pensando di convertire il prato attorno a casa. Solo che questa è un’operazione culturale da avviare sin dai primi anni dell’istruzione pubblica. Ogni scuola, in Sardegna, dovrebbe avere un orto, ogni ragazzo dovrebbe saperlo piantare e saper piantare un albero da frutto, prima dell’ora di informatica e dopo l’ora di inglese o educazione tecnica. Ai nostri ragazzi dobbiamo insegnare che la terra è vita e libertà. Se no, rassegniamoci a vederla incenerita per gli interessi di qualche oscura multinazionale.
Francesco Giorgioni
E’ stato proprio il sistema mercantile ad aver operato il distacco culturale tra la società e la terra, facendo sembrare il lavoro nei campi superato, sgradevole e poco onorevole. Tutto in funzione del consumo e del “PIL”. La filiera agro-alimentare locale, non fa PIL. Ora il sapere tradizionale della terra è sconosciuto alle nuove (e anche alle medie) generazioni, e questo è un gravissimo danno culturale e sociale alla quale occorre opporre rimedio. Anche perché questo recupero può essere fonte di civiltà, remunerazione, gratificazione e posti di lavoro. Un “orto in ogni scuola” può essere un buon inizio.
Rimettiamo in moto i nostri cervelli ricominciamo a pensare e a fare.