Chi era il Maestro di Ozieri e perché è una figura così misteriosa? «L’incognita sulla sua vera identità rimane. Quello che ora risulta più chiaro è il suo orizzonte culturale, aperto ad un “Mediterraneo allargato” al Nord Europa, ben più ampio di quanto si possa immaginare per un pittore attivo nella periferia di un vasto impero, come era quello di Carlo V nella prima metà del Cinquecento».
Perché proprio il Goceano? «Sorprende in effetti che un’opera così affascinante come il Retablo di Sant’Elena si trovasse in una località così defilata: Benetutti non era un polo commerciale, non una corte rinascimentale, non dimora di illuminati collezionisti, eppure il pittore è proprio lì che ha lasciato alcune delle tavole più strepitose: la Sant’Elena affabile quanto una altera e aspra badessa pare redarguire con il solo sguardo quei fedeli poco timorati di Dio, mentre la figura dell’ebreo Giuda che strilla durante l’estrazione della Vera Croce ricorda un rustico contadino, quasi fuoriuscito dai dipinti di Brueghel o dal teatro popolare di Ruzante. Il Goceano era in effetti una periferia nella periferia, probabilmente una condizione esistenziale può aver spinto un pittore così cosmopolita a spingersi fin laggiù. Le “inquietudini” di cui si parla nel sottotitolo del libro richiamano quelle avvertite da altri pittori che lavorano in periferia nei primi decenni del Cinquecento, si pensi al caso di Lorenzo Lotto».
Si può confrontare con un’altro maestro misterioso di un secolo prima, quello di Castelsardo, forse c’entra l’amore per i fiamminghi degli spagnoli? «La Sardegna ha costituito un terreno fertile di approdo per eccellenti pittori forestieri. Un luogo defilato e sperimentale dove mettere a frutto esperienze maturate altrove: il Maestro di Castelsardo è brillante compagno di grandi e raffinati catalani come Jaume Huguet e i Vergós, mentre il Maestro di Ozieri sposta l’ago della sua bussola dal Levante spagnolo verso i paesi germanico-fiamminghi. I paesaggi dipinti a Benetutti sono fiamminghi: ricordano da vicino Joachim Patinir e Jan van Scorel. Le rocce, la veduta di Gerusalemme nella vallata dipinta nella Crocifissione, le piccole Scene della Passione disposte nello sfondo, sono tutti elementi che trovano modelli e fonti di ispirazione in tanti casi fiamminghi: in Joachim Patinir , Joos van Cleve, Pieter Coecke van Aelst e in Maarten van Heemskerck. L’unico che nel Meridione sia così attento ad una simile dimensione del paesaggio è il grande Polidoro da Caravaggio, attivo come sappiamo anche a Napoli e Messina».
Dal suo studio viene fuori un’isola molto meno isolata di come in genere la si immagina, era così o quello del Maestro è solo un caso? «L’isola non era certo isolata, però rispetto a grandi centri, come Barcellona, Valencia, Napoli, era una seconda piazza, dal punto di vista dell’entità delle operazioni economiche e commerciali, dunque il numero di commissioni di opere prestigiose sarà stato minore, ma vi figurano comunque opere ragguardevoli, come il Retablo dei Beneficiati a Cagliari o il Retablo di Tuili del Maestro di Castelsardo. Il Maestro di Ozieri resta comunque un caso isolato di forestierismo spiccato. La componente nordica è autentica e forte, ma non è la sola. Dimostra infatti di saper modulare la maniera moderna italiana in senso polemico, dando una versione riottosa e più franca di invenzioni di origine raffaellesca, come nel pannello centrale del Retablo di Ozieri, dove cita la Madonna Sistina di Raffaello, in maniera dissonante, tumultuosa. Insomma il Maestro di Ozieri è l’esponente più emblematico in Sardegna di un raffaellismo poco conciliante, disarmonico, come quello in atto nella Sacra Famiglia di Ploaghe».
Quanto è importante la sua opera? «Parecchio. Perché ci dà la dimensione di quanto l’arte pittorica nell’Isola fosse aperta a non poche sollecitazioni. Oltre alla componente nordica, troviamo nel Maestro di Ozieri lo stesso ideale di bellezza femminile acerba e maliziosa del tedesco Lucas Cranach (nelle damigelle che accompagnano Sant’Elena nell’Invenzione della Vera Croce a Benetutti). Allo stesso tempo, nella Sacra Famiglia di Ploaghe, il Maestro di Ozieri dà prova di sapere rielaborare in maniera dissonante un’invenzione di Raffaello».
E come si colloca nel mondo a lui contemporaneo? «Si colloca come pittore sperimentatore, una sorta di eccentrico tardivo, perciò alcune sue scene ricordano pittori eccentrici come Marco Cardisco. Più che provinciale è un pittore periferico, ma come Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg ci hanno insegnato ad intendere la “periferia”, capace di esprimere spesso alternative originali, come negli scacchi avviene con “la mossa del cavallo”. Già Federico Zeri una volta intervistato da Marco Magnani metteva in risalto la stratificazione di fonti nell’arte in Sardegna, che esprime pienamente la permeabilità di questa terra di frontiera mobile».
Si può parlare di una pittura sarda, cioè di un modo di vedere ed elaborare l’arte specifico? «Non credo lo si possa fare per il Quattro e Cinquecento, perché è cospicuo l’apporto di pittori forestieri. Se ne può parlare forse per i Cavaro, che si smarcano dalle eredità gotico- catalane e impiantano un’attività imprenditoriale con la loro Scuola di Stampace, la fiorente bottega cagliaritana che fa dell’italianismo la sua carta vincente».
Come si studia un quadro, come lo si legge attraverso l’iconografia “analitica”? «L’iconografia analitica è un’indagine profonda del dipinto. Si parte da un dettaglio che in qualche modo si comporta come rivelatore di qualcosa, secondo un “paradigma indiziario”. Alcuni dipinti del Maestro di Ozieri si prestano magnificamente a questo tipo di analisi: un dettaglio che è poi un’anomalia è la tenda che compare nella Sacra Famiglia di Ploaghe, sollevata da un misterioso personaggio, che apparentemente non ha molto a che fare con il tema della Sacra Famiglia. Perché la tenda? Perché quel personaggio mezzo sdraiato che la solleva? Risalendo nella ricerca fino a capire da dove salta fuori quest’idea, si capisce qualcosa del pittore che sfuggiva ad una prima occhiata. La tenda ha a che fare con il parto virginale della Madonna e la Rivelazione di Dio nel Nuovo Testamento, mentre il personaggio che la solleva è una rielaborazione lillipuziana degli Ignudi michelangioleschi nella Sistina».
Nel caso del Maestro quali sono stati gli indizi che l’hanno maggiormente guidata? «Tra gli indizi che una volta individuati hanno fatto la differenza c’è senz’altro l’arco naturale che si trova nello sfondo dell’Invenzione della Vera Croce di Benetutti, è una perforazione della roccia, si ritrova identico in un dipinto di Jan van Scorel conservato a Detroit. Un indizio sintomatico di una familiarità con gli sfondi fiamminghi».
C’è una scoperta, una casualità o una coincidenza che sia stata illuminante nella sua ricerca? «Il personaggio sulla copertina del libro è diventato un compagno di avventure per me, l’abbiamo ribattezzato “lo strillone”, mi ricordava l’atteggiamento del venditore che un tempo urlava i titoli per strada, come pure mi faceva pensare ad un celebre fotomontaggio di Rodcenko. Per un bel po’ di tempo mi sono chiesta il perché di quel personaggio così sopra le righe in una scena così compita, l’ho capito dopo un po’ di tempo ed è stata la chiave di accesso all’iconografia del dipinto, che richiama i Tre Stati o Ordini della Cristianità (Comunione, confermazione o cresima, unzione degli infermi). Ma è un po’ lungo spiegarlo qui, sicuramente c’è da dire che alla base del dipinto non c’è niente di simile prodotto in Sardegna o nel Vice regno spagnolo. Altri indizi fondamentali per la comprensione del pittore sono: il sovradimensionamento del corpo del San Sebastiano del MUS’A di Sassari, lo sguardo spiritato del San Giuseppe nella Sacra Famiglia di Ploaghe, le gambe “scampanate” della Sant’Elena di Benettuti. Si tratta di segnali di una ricezione periferica e singolare della “terribilità” e del titanismo di Michelangelo».
* Nuova Sardegna