di Sergio Portas
A sentire Sara Sagrati che di mestiere è critica cinematografica, l’Italia ha trovato un altro regista. Cita al riguardo le consonanze con il finlandese Aki Kaurismaki, uso ad ambientare i suoi film negli strati meno fortunati della società, in cui emergono personaggi e situazioni le più stravaganti. Bonifacio Angius , sassarese poco più che trentenne, col suo “Perfidia” ha vinto il Premio Giuria Giovani al festival di Locarno, unico film italiano che sia stato giudicato degno di concorrere anche al più prestigioso “pardo d’oro”, attori protagonisti Stefano Deffenu, di Sassari e Mario Olivieri che a Sassari ha svolto una quarantennale attività di attore di teatro, di tv e radio private, protagonista femminile Noemi Medas, di quei Medas cagliaritani che sono in palcoscenico dai primi del novecento, unica famiglia di teatranti sardi che possa vantarsi di tale titolo. Ambientato a Sassari. E non possiamo chiamarlo un film sardo? Bonifacio dice che no, è qui a Milano al cinema Beltrade, uno di quei vecchi cinema di oratorio con le poltroncine rosse di velluto un po’ liso, che fa opera meritoria perché programma lungometraggi che nulla hanno a che fare con le ultime scelte della filmografia hollywoodiana, costruita su effetti speciali e budget miliardari, un bicchiere di Cagnulari in mano, in attesa che alle ventuno inizi la proiezione del suo film. Cappellino in testa e sigaretta scroccata ad uno che è in fila per i biglietti, anche Bonifacio Angus di sardo mostra poco o nulla. Venendo da un’elezione di presidente della repubblica, mi pareva di poter solleticare il suo orgoglio paesano ricordandogli i sassaresi che sono stati chiamati a tanto incarico (per tacere dei Berlinguer e dei Pisanu) ma non potevo trovare minor entusiasmo. “Politici, gente brava a parlare, qualcuno anche in buona fede (bontà sua) ma quando arrivano a scalare posti di potere crescente, tutti presi da uno stesso ingranaggio, che fa loro dimenticare il bene comune.” Lui sarebbe per una anarchia fantasiosa, non riesce a capire l’orgoglio di chi spende una vita per arrivare nei posti dove “vengono prese le decisioni”, anzi non percepisce neppure che possano esistere posti di questo tipo, in cui i pochi possano decidere per moltitudini che dovranno obbedire ai loro dettati. Una visione così poco consolatoria della politica è anche nel film e non poteva essere altrimenti dato il regista: Peppino, uno spettacoloso Mario Olivieri, il babbo di Angelino, che ripiomba nella vita del figlio trentacinquenne alla morte della moglie, e mamma di lui, seppur anziano e appagato della vita che ha fin qui condotto e che lo ha portato a stringere una solida rete di amicizie tra “quelli che contano”, nel disperato tentativo di trovare lavoro per quel figlio che si alza dal letto solo per recarsi al bar, dove lo attendono una variegata congerie di falliti, le mani strette sui boccali di una Ichnusa, a fare da sfondo le biglie del bigliardo che schioccano e le luci della slot machine sempre in funzione, si ributta in politica per le comunali. Per che partito, gli chiede Angelino, ma per diventare magari assessore, si ma per che partito gli ribatte lui , ma chi se ne frega di quale partito, basta che ti mettano in lista. Ironia della sorte, Peppino sarà eletto quando già un colpo apoplettico lo ridurrà inerme e invalido in carrozzella. Avevano provato a parlarsi quei due, anzi è sempre Peppino che chiede, ma quanti anni hai? E cosa ti piace fare nella vita? Io alla tua età andavo a pescare, non ti ho mai portato a pesca con me? E mangiare ti piace? Quando ho fame. E ti piacciono le donne? Certo che sì. Le donne nel bar dove la vita srotola i suoi ritmi sonnacchiosi sono più teorizzate che vissute. “E quando sei andato a Roma hai visto il Derbi?”. “Sono andato a Roma in viaggio di nozze”. “E quando sei andato a Roma sei andato a bagasse?”. “Ero a Roma in viaggio di nozze!”. “E che cosa c’entra potevi andare a bagasse”. Che le “bagasse” romane sono notoriamente migliori delle nostre, quella rumena (molto carina in verità) a cui “gli amici” portano il vergine Angelino: “e non ci far fare brutte figure mih!”, si accontenta di venti euro per un “servizio con la bocca”, “coitus interruptus” dalle grida sguaiate dei compari che aspettano in macchina. “E andate tutti affanculo!” Il tutto ambientato tra palazzoni in annosa costruzione, i lampioni che gettano una luce gialla e mortifera su strade semi-deserte, dove le poche macchine sfrecciano paurose di fermarsi in un territorio ostile di per sé. Squallido. Ma mai quanto la cucina piena di avanzi che Angelino lascia ogni sera, dopo una cena che proviene inesorabilmente dalla solita spesa al supermercato . E ci porta pure una ragazza in tanto squallore. La vede sempre scendere dall’autobus che riaccompagna le ragazze da scuola, lui e i suoi compari di bar seduti come al cine, fuori il locale, a fissare quel tripudio di capelli lunghi e folti, quei visi di madonne che si scambiano il bacio del saluto, quei jeans multicolori che si muovono al ritmo di una musica colorata di celeste. Una di loro lo guarda Angelino, chè Stefano Deffenu è proprio un bel ragazzo, specie se paragonato ai due ceffi birramuniti che frequenta giornalmente (i due bravissimi Alessandro Gazale e Andrea Carboni). Riesce miracolosamente a conoscerla, a portarla al Luna Park dove lo vediamo finalmente sorridere mentre gioca e vince l’elefantino di peluche per lei, e poi l’autoscontro e le macchine volanti. Occhi dell’uno in quelli dell’altra ( quelli della Medas da guardarsi con parsimonia se non volete cadere in amore). Quanti anni hai? Venti. E cosa fai? Studio all’università. E quanti anni hai? Venti, e gli occhi hanno un che di dubbioso, un velo di sgomento come girano in tondo per quella cucina in disordine, sudicia. Se ne andrà la ragazza, lasciando Angelino solo col padre in carrozzella, ingombrante per le cure che tocca dargli giornalmente. Fino a che Angelino non ce la fa più e il film si tinge di nero, non diventa un “noir” come insinua la Sagrati, non fosse altro perché si chiude col nostro eroe che, una volta tanto, sbanca la slot machine, incurante che qualche poliziotto possa chiedergli che fine abbia fatto il padre in carrozzella. Incurante che ogni euro che spende non possa che provenire da quel padre, visto che Angelino non ha lavorato mai. Ma è vero che a lui non interessano i soldi, né gli interessa di nulla della vita che conduce, convinto che Gesù, che tutto può, saprà nella sua bontà mandare cose buone a chi si comporta bene , che so una famiglia, una moglie. Dice Bonifacio che lui non ha alcun messaggio da comunicare, la sua è solo una storia e la preoccupazione è per il personaggio che fa agire, ricercandone coerenza e onestà. Immerso com’è in un mondo perfido in cui tutto sembra fermo e dove non succede mai nulla. Cercando di sentirlo sempre vivo, il personaggio: “ che è diventato un po’ come fossi io stesso”. “Lo spettatore deve chiedere al film: ti emoziona?” “E il film reggerà al tempo? “I vitelloni” sembra girato ieri tanto parla della vita d’oggi”. Film privo di ogni didascalismo, dicono i critici, qui c’è un minimalismo oramai raro nel cinema italiano, il modo in cui Bonifacio racconta le cose è assolutamente suo, è grande! Non c’è un troppo detto, un troppo raccontato, forma e contenuto sono un tutt’uno. Girato nel quartiere “Rizzeddu” di Sassari, anonimo senza alcun punto di riferimento, il mare di Sardegna sempre illividito dalle nuvole cariche di pioggia, che sbatte onde lunghe sulla battigia. Gli interpreti sono attori di teatro e alcuni non attori. “Scelgo i visi che si dovranno inserire nella storia che ho in testa, per un regista è la cosa più difficile, tra le scelte che gli toccano”. Il personaggio di Angelino è terrificante e inquietante nello stesso tempo, impossibile non ripensare al “Taxi Driver” di Scorsese da cui mutua situazioni e comportamenti (del resto, cinefilo qual’è, lo ammette anche Bonifacio
). Si muove catatonicamente in un mondo che non ha contribuito a creare ma che subisce con una passività che dispera. Anaffettivo com’è lo diresti uno zombie che copia i comportamenti di chi lo circonda non avendone di sui nel DNA, prodotto di una società livellante e spietata con gli ultimi. Bonifacio Angius, lui viene da una famiglia in cui il cinema è stato sempre importante e ad imparare a farlo è andato a Barcellona e New York (corsi specialistici di cinematografia), la Sardegna è quinta del suo teatro interiore e altrimenti non poteva essere, come Fellini pensa che si debba filmare il sé che si è. “Perfidia”, il titolo, solo una canzone di Nat King Cole sentita reitatamente durante la scrittura della sceneggiatura. Abbiamo un nuovo regista italiano.