di Sergio Portas
Se, come asseriva Hegel, il giornale è la preghiera del mattino dell’uomo moderno, mi sento di poter dire, dando uno sguardo ai milanesi che prendono la metropolitana, tutti immersi nello scrutare i loro telefonini con maniacale attenzione, che di uomini moderni si va perdendo la traccia o che più semplicemente nessuno ha più molta voglia di pregare, al mattino. Io pervicacemente rimango convinto che un popolo che non legge i giornali è destinato a pagarne le conseguenze culturali ( di declino) e politiche: che so votare per vent’anni un populista destinato a finire in galera, prima o poi, e , a disastro avvenuto, rimediare buttandosi sul primo comico televisivo che urla contumelie o sul delfino padano di un altro trombone finito sotto processo per aver distratto fondi del suo partito ad uso famigliare e privato. Tutto questo per confessarvi che ogni mattino che Dio mi manda vado in edicola per “Repubblica”, quotidiano di tendenze non esattamente rivoluzionarie ma che, a parer mio, ha avuto il merito negli ultimi vent’anni di cui dicevo, di accorgersi per tempo che quel politico che li ha cavalcati alla grande aveva frequentazioni pericolose e vicinali con mafiosi conclamati (Mangano) e con altri che per mafia avrebbero dovuto scontare anni di galera (Dell’Utri). Inevitabile quindi che sia particolarmente affezionato alle “firme di Repubblica” e tra queste a Gianni Mura che dovrebbe scrivervi di sport. In realtà Mura si è conquistato, in cinquant’anni di giornalismo (era praticante alla “Gazzetta dello sport”, la rosa, nel’64) il diritto di scrivere di quello che gli salta in mente: il 28 dicembre apre la sua rubrica quotidiana “Sette giorni di cattivi pensieri” con: “Il 17 dicembre i talebani fanno una strage in una scuola di Peshawar: 152 morti, di cui 132 minorenni”. Il giorno dopo recensendo e dando pagelle ai cento nomi dell’anno ci mette anche: ”Francesco (papa) Dal 9 al 9,5”. Per la cronaca di 10 non ne ha dato a nessuno. I suoi articoli sono pezzi di giornalismo che rimarranno, in ispecie quelli scritti al seguito del Tour de France. Non a caso sul tema ha scritto due dei suoi numerosi libri (scrive anche di narrativa gialla). Mura è cognome sardo, il babbo di Gianni nasce a Ghilarza, lui a Milano nel’45. Scrive nella prefazione al libro di Paolo Piras: “Bravi e Camboni, l’epica minore del Cagliari: piedi storti, teste matte e colpi di genio” (egg edizioni 2014): “ E quel colpo di testa, in tuffo, di Gigi alla Germania Est, quando Brera scrisse che la rete si gonfiò come investita da uno squalo, a che velocità andava? E infine con tutto il rispetto, chi se ne strafotte? I numeri non dicono tutto, a parte quell’11. I numeri dicono poco. I numeri non spiegano per quali strade calcistiche o umane alchimie si arrivi a realizzare l’utopia di uno scudetto a Cagliari” (pag.XI). A parlare del libro di Piras in libreria a Milano, presente l’autore, oltre che Gianni Mura è un altro giornalista di vaglia: Massimo De Luca, che deve la sua celebrità alla conduzione della “Domenica sportiva” televisiva, come dire che lo conoscono proprio tutti, e fu proprio lui che lo fece assumere in RAI quando ancora dirigeva Raisport, da lì al Tg3 dove Paolo si distingue per scelta di reportage e per una dizione limpida ed esaustiva, l’accento cagliaritano quasi dimenticato. Anche qui parlo con la cognizione di causa di uno che alle ore 19, immancabilmente, si sintonizza sulle frequenze del TG3 (tranquilli, ascolto anche i tigì di radio Popolare mezz’ora dopo).
Sia Mura che De Luca concordano nel definire “sorprendentemente ben scritto da un giornalista della Rai” il libro di Paolo Piras. “E’ un libro che si lascia leggere”, apprezzabile per leggerezza di scrittura, dove i tackle (contrasto in termine calcistico) sono dolci, come si conviene a una storia calcistica che è diventata vera epopea, del calcio di quel Riva Luigi detto Gigi che non può che avere a motivo conduttore la nostalgia. Una specie di Macondo in salsa sarda, cagliaritana, come nel celeberrimo romanzo di Marquez vi si intrecciano storie, calcistiche ma non solo, dove tutto è abbastanza indeciso. Vago il principio di identità: quel Vittorino uruguagio, centravanti della sua nazionale che vinse fin un Mundialito, era davvero un bidone, uno scarpone, unu camboni? E che dire di quel Katergiannakis, portiere greco che approdò al Cagliari nel 2004 che lascia incustodita la sua porta per salvare un povero piccione che si era preso una pallonata da Manfredini in un Lazio-Cagliari di Coppa Italia: “… Sprezzante del gioco che intorno prosegue, grondante empatia animalista, incurante del fatto che a tutto il resto del mondo intorno, arbitro incluso, potesse sbattere meno di niente delle sorti del pennuto…”(Pag.34). Dice Paolo Piras che la TV ha finito con l’uccidere un certo tipo di epica. Oggi dei campioni dello sport, e del calcio in particolare, si conosce proprio tutto. Il gossip si è impadronito delle loro vite, delle loro relaziono sentimentali. Lo spogliatoio è presentato sempre in un silenzio da obitorio. Non resta quindi che celebrare l’epica dei brocchi. Anzi se esiste anche un’epica delle tifoserie, e lui quella del Cagliari la conosce molto bene, avendola frequentata col padre fin dal ’75, aveva cinque anni e si ricorda ancora di quel Cagliari-Cesena che finì 1 a 2, per i rosso-blu: gol al volo di Gigi Riva, quella cagliaritana ha vaghe somiglianze con quelle non necessariamente vincenti: interisti sfigati, granata, genovesi, romanisti. Ma come è indelebile quel ricordo di Minguzzi, anche lui portiere non proprio eccelso, che non aveva proprio l’idea di come si piazzasse una barriera sui calci di punizione avversari che finivano sempre più di assomigliare a un rigore, così è l’incedere di un Francescoli, vero principe del pallone, e come scordare quel gol di Zola all’ultimo minuto di un Cagliari-Juventus, stanno vincendo loro per 2 a 1; da uno di quei cross che si fanno più per disperazione che per convinzione Zola, quasi un nano lo dice Mura, 1,67 contro Zebina che è 1,85, schiaccia in rete di testa! Il libro è pieno di queste pennellate. E naturalmente zeppo di quel Cagliari-miracolo che vinse lo scudetto nel 1970. Un Cagliari che oggi sarebbe fuorilegge, sempre Mura. Fumavano tutti e undici titolari, quattro anche nello spogliatoio. E i digestivi erano tutti più forti del mirto tradizionale. Tutta la Sardegna, finalmente unificata, tifava Cagliari. Impossibile non citare quel Nanni Loy televisivo che va a chiedere a un pastore: “Ma a lei cosa ne viene se vince il Cagliari?” ricevendone la secca risposta: “E a me cosa me ne viene se perde?”. Nel ’70 io avevo quattordici anni, seconda superiore a Rho, paesone di quarantamila abitanti a mezz’ora da Milano. Inaspettatamente la Sardegna era emersa sulle prime pagine dei giornali nazionali, Gianni Brera scriveva di quel “rombo di tuono” proveniente da Leggiuno, Varese, e del “meraviglioso Cagliari”, il lunedì mattina all’ennesima partita vittoriosa dei rosso-blu mi pareva di essere più alto di una buona spanna. Anche se in quei undici non c’erano giocatori sardi. Ma più della metà di loro sono poi rimasti a vivere in Sardegna. Con i sardi sempre più orgogliosi per ogni NO che Riva rifilava alla Juve degli Agnelli che l’avrebbero voluto alla loro corte, coprendolo d’oro. L’allenatore Scopigno ( detto il filosofo) che entra nella camera d’albergo di Bassano del Grappa, dove la squadra è in ritiro, sono le 24,30 e l’ora è da testimone presente sul posto, sempre Gianni Mura, il fumo delle sigarette da camera a gas, c’è un tavolo di ramino pokerato, carte e grappa ovviamente, siamo a Bassano. “Quando finite aprite le finestre”, il suo lapidario “filosofico” commento. Un libro che diverte e commuove anche (quel campioncino do ‘O Neill che annega in un mare di alcool) capace di parlare di campioni e di brocchi con lo stesso metro di una prosa brillante e melodiosa, a tratti. Opera prima di una casa editrice di San Gavino, la egg di Carla Piras (mi dice che non è parente), sangavinese purosangue, passata da Radio Press alla “Nuova Sardegna” e all’ufficio stampa di Soru quando scalò la presidenza della regione. Vinta una borsa di studio europea fa un “master” a Roma , uno stage alla casa editrice
“Minimum Fax”, dove impara l’arte di amministrare. E poi si mette in proprio. Questo primo libro lo definisce “canarino da miniera”, se riesce a sopravvivere con i costi e le vendite ne ha in serbo altri due, assolutamente diversi. Uno di un francese che scrive su “Le Monde Diplomatique” su gli errori della UE (deve essere ponderoso). L’altro di tale Castan, uno spagnolo che,mi dice Carla, scrive con una prosa sontuosa. Babbo ragioniere e mamma casalinga, lei laureata in lingue, due fratelli, uno laureato in filosofia. Fortunatamente per lei i suoi in casa parlano in sardo, così che anche lei se la cava e tutto lo capisce, mi pare m’abbia detto di avere trentasei anni ma non ne sono certo, che me la ricordo come ne avesse ventisei.