di Serena Guidoni *
Realtà o mitologia? Quella de l’accabadora è una figura avvolta in un’aura di arcana ambiguità, che affascina da sempre studiosi, scrittori e cineasti. Raccontarla oggi porta in sé il peso di una storia antica, che parla di donne umili e sensibili, sulle quali grava il peso di ciò che è stato tramandato loro. Verità o menzogna di una tradizione popolare troppo spesso bistrattata e ridotta a credenze banalizzate; gli antropologi hanno tutt’ora pareri discordanti al riguardo ma, nonostante ciò, quella di colei che “regala la dolce morte” ad anziani ed infermi, è una figura essenzialmente legata ad un contesto storico specifico e caratterizzata (paradossalmente si potrebbe pensare) da un profondo rispetto per la vita. È in questo senso che si inserisce l’ultimo lavoro del regista Enrico Pau, impegnato nell’ultimazione del suo nuovo film: “L’Accabadora”, una co-produzione Film Kairo’s e Mammoth Films. Al suo terzo lungometraggio dopo l’esordio con “Pesi leggeri” e il successivo “Jimmy della collina”, Enrico Pau si immerge in un film storico ambientato in una zona rurale della Sardegna alla fine degli anni Trenta e all’epoca dei bombardamenti di Cagliari durante la Seconda Guerra Mondiale. Annetta è una donna di circa trentacinque anni, sempre vestita di nero, solitaria e silenziosa, d’una bellezza di pietra. Custodendo in sé un terribile segreto del passato, trascorre le sue lunghe giornate in attesa di una chiamata. Quando ciò avviene le sue dita sottili aprono una vecchia sacca di cuoio e scoprono una mazzola di legno, un vecchio cuscino, uno specchietto spaccato. Finché qualcosa d’imprevisto giunge a cambiare tutta la sua esistenza. Annetta scoprirà di poter essere ben altro dall’Accabadora che era un tempo, riappropriandosi della sua vita e del suo essere donna. La sceneggiatura, scritta da Enrico Pau e Antonia Iaccarino, vede tra gli interpreti del film Donatella Finocchiaro nel ruolo della protagonista, l’attore irlandese Barry Ward, Carolina Crescentini, Sara Serraiocco e Anita Kravos. Lontano da stereotipi letterari ma profondamente legato al fascino di una figura “fuori dal tempo”, il film vuole raccontare il cambiamento di una donna che coincide con il cambiamento del mondo intero. Abbiamo incontrato il regista durante le riprese del film a Cagliari.
Come è nata l’idea di questo progetto? Questa storia è nata nel 2007 dall’incontro fra me, Francesco Pamphili che è il produttore e Antonia Iaccarino, con la quale ho scritto la sceneggiatura partendo da un soggetto originale elaborato insieme a Igort (autore di fumetti e graphic novel). Più che dal tema dell’accabadora (nonostante il titolo il film non vuole concentrarsi essenzialmente sulla sua figura), ero affascinato dal raccontare la vicenda che ruota intorno al suo personaggio e in particolar modo al periodo dei bombardamenti a Cagliari nel 1943, un momento storico che a me personalmente ha sempre toccato molto perché la mia famiglia ha stampata sulla sua pelle quei giorni, quella tragedia. Quel periodo fa parte del mio background di uomo, di essere umano e di cagliaritano.
A che punto siete delle riprese? Siamo alla terza settimana e ne abbiamo ancora due di ripresa. Abbiamo lasciato il borgo di Collinas e il comune di Samassi, e in questo momento stiamo affrontando le scene ambientate all’interno di un ospedale di Cagliari durante i bombardamenti. La chiesa nella quale stiamo girando funziona perfettamente da scenario (Chiesa di San Giuseppe Calasanzio, ndr), poiché nel 1943 fu soggetta proprio a dei bombardamenti durante i quali l’edificio riportò gravi danni. È un luogo affascinante e ricco di memoria storica; non poteva che essere la location ideale per la vicenda che vogliamo raccontare.
Lei ci ha tenuto a precisare che il suo film non è, in alcun modo, legato al romanzo di Michela Murgia “Accabadora”. Sì, assolutamente. Ho cominciato a pensare a questo film quando ho letto anni fa un saggio dell’anatomo-patologo Alessandro Bucarelli che raccontava con la chiarezza del saggio scientifico il ruolo sociale dell’accabadora. Su questa figura non c’è una vera e propria documentazione, ma è innegabile che sia un personaggio affascinante. Il nostro lavoro è stato quello di renderlo un po’ più letterario o, per meglio dire, più reale; lontano da quella mitologia inquietante di donna anziana che giunge durante la notte. Raccontiamo una donna in un momento di passaggio della sua vita, durante il quale avviene la scoperta di sé.
Come si coniuga la mancanza di documenti che attestino la presenza di questa figura con la realtà del tempo che lei vuole raccontare nel suo film? Io trovo del tutto verosimile che ci potessero essere delle donne detentrici di questa competenza e conoscenza medica. In fondo che cosa si trattava se non di dare una “morte dolce” a coloro che soffrivano, agli anziani e agli infermi legati alla vita ancora per poco e fra inutili sofferenze. Per quanto esistesse una medicina ufficiale escludo che nell’ambiente popolare avessero degli strumenti quali la morfina, di conseguenza dare una morte dignitosa era un atto di pietas da parte della comunità stessa. In questo senso penso che questa figura sia esistita, mi auguro che lo sia. Ma rimane il fatto che il nostro è un film che pur essendo storico mantiene un suo tratto visionario, da “favola”, nel senso atemporale ed eterno del termine.
Un argomento spinoso per il cinema in generale, e per quello italiano in particolare, è ciò che riguarda l’aspetto produttivo. Quali sono state le difficoltà che questo film ha incontrato? È evidente che il cinema italiano in questo momento non stia attraversando una fase particolarmente semplice e, infatti, la nostra è stata una produzione per come dire “creativa”, ovvero inventarsi il modo di raccogliere i fondi per girare questo film. Siamo stati fortunati perché abbiamo ottenuto un budget rilevante, con il quale abbiamo la possibilità di utilizzare anche gli effetti speciali necessari. Ad esempio a questo progetto partecipa una struttura privata come il Banco di Sardegna, che ha sposato insieme agli altri il nostro sogno e il fatto che si stia materializzando è per me una cosa estremamente interessante.
Com’è avvenuto il coinvolgimento degli attori e di Donatella Finocchiaro nello specifico? Di solito gli attori più sensibili hanno il dono di riconoscere le sceneggiature che hanno una loro forza, quindi probabilmente quello che ha attratto questi attori così importanti è il fatto che la sceneggiatura ha una sua energia narrativa. Per quanto riguarda Donatella, posso dirle che il film è stato scritto pensando a lei; è un’attrice che ha dipinto sul viso il personaggio di Annetta.
Donatella Finocchiaro è un’attrice assolutamente straordinaria ma è inevitabile porsi la domanda: perché non un’attrice sarda? Donatella è un’attrice che apprezzo moltissimo e, nonostante non neghi che ci potessero essere delle alternative, un regista rimane essenzialmente legato all’idea che aveva sin dal principio, ovvero il personaggio che ha immaginato deve corrispondere o somigliare ad un volto reale, e in questo senso Donatella è perfetta. Ci tengo a precisare che comunque nel film sono stati impiegati diversi attori sardi.
I suoi film precedenti, “Pesi leggeri” e “Jimmy della collina”, sono delle storie di riscatto sociale. In questo senso anche il personaggio di Annetta cerca un riscatto rispetto alla sua condizione di emarginata? Annetta attraversa la sua vita con dentro un segreto che non si può raccontare, sembra destinata alla solitudine degli sciamani che vivono dentro il villaggio in un perenne e totale isolamento. Ma Annetta è l’emblema della donna moderna, pronta al cambiamento, pronta a immaginare una vita nuova.
* La Donna Sarda