di Sergio Portas
Complice un settembre che ha spazzato via da Funtanazza i vacanzieri agostani (alle nove del mattino giusto due ombrelloni sciupavano la solitudine della rena giallo-oro), mantenendo però mare e cielo e sole il top delle loro “performance”, sono rimasto a Guspini fino al 7 del mese, in tempo per fermarmi la mattina a Seneghe, la nave per l’imbarco la sera a Porto Torres. Mi ero ripromesso di fare un salto lì, ma quel mare mi ha stregato, anche quando due dei poeti che contribuiscono a dare lustro al nome della manifestazione: “Cabudanne de sos poetas”, Franco Loi e Mariangela Gualtieri, coordinatori rispettivamente del programma artistico del festival dell’anno scorso e di quest’anno, si fossero consegnati alla piazza con la lettura delle loro liriche: ambedue “mostri sacri” della poesia contemporanea italiana e dialettale- milanese (l’enciclopedia regina della rete “Wikipedia” riempie le loro pagine di opere scritte e premi ricevuti), tutti e due innamorati del modo modo singolare che il festival ha inventato per far incontrare mischiandoli la gente del paese con gli artisti e “i turisti”. Allargando l’offerta poetica anche nel tempo e nello spazio, fin dal 25 di luglio tra Oristano, Milis, Bonarcado e Narbolia, tra anteprime e degustazioni di prodotti locali, si sarebbe potuto seguire un filo rosso che avrebbe svolto le sue spire sino al centro del Montiferru. Lì dalla mattina alla sera tardi nelle piazze, nei bar, nel vecchio frantoio: in Partza de sos ballos, S’arruga de Putzu arru, Piazzetta Su Lare e Sa Prenza de Murone, un’orgia di musica, dibattiti, letture, teatro, fotografia e versi: dal 3 a7 avrebbe impazzato il “Cabudanne de sos poetas”. L’ultimo giorno ho impattato in Anna Cristina Serra, “una delle figure di maggior rilievo nel campo della poesia sarda” che, presente l’autore, leggeva dai libri di Antonello Bazzu, poeta che scrive indifferentemente sia in sassarese che in gallurese e che miete premi nei principali concorsi di poesia in Sardegna, tra gli ultimi il prestigioso “Ozieri”. Prima però, incontro in “su tzilleri”, al bar, ad ascoltatore la storia musicale di Pino Martini Obinu: stagioni di un musicista, stimolato dalle domande di Francesco Pintore, giornalista dell’”Unione” e di Mario Cubeddu, scrittore, organizzatore culturale, anima del festival. Preziosa la testimonianza di Francesco Pintore perché era presente al festival anche nel suo esordio, giusto dieci anni fa, e può quindi dar conto di quanta strada abbia percorso sia nello sviluppo delle tematiche che l’hanno visto nascere, sia nell’immaginario collettivo del sistema dei media sardi e italiani e internazionali, nel 2009 è il Ministero dei Beni culturali a indicarlo come “migliore progetto italiano per la diffusione della poesia”, quest’anno ha ottenuto il patrocinio dell’UNESCO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. E anche dieci anni fa c’era Pino, allora coi Tanca Ruja, lui del resto ha casa qui a Seneghe e il meno che si possa dire che ha partecipato sempre attivamente a che il progetto “cabudanne” andasse in porto alla meglio. E’ un percorso musicale di oltre quarant’anni quello di Pino Martini Obinu, dice Francesco, che nella sua produzione d’autore di musica c’è da sempre un grande rispetto per la tradizione (sarda) ma anche un nuovo modo di usare le parole. Che sia anche un tentativo di parlare anche ai giovani? Pino insegna economia in una scuola superiore a Milano, gli capita che qualche suo alunno scopra tutto di lui, musicalmente parlando, ora che internet ha reso le nostre attività extra particolarmente trasparenti, gli capita che gli chiedano del perché del suo mancato successo, perché non è diventato un divo. “Rispondo loro che per me la musica è stata da sempre comunicazione, e anche impegno sociale, che sono soddisfatto di una carriera che mi ha permesso di circondarmi di amici. Che ho sempre preferito parlare a “su bighinau”, il vicinato, per una ricerca di incontro, passione e divertimento fine a se stesso. Mancano due anni a che compia i cinquanta di attività. Nel ’66 ho iniziato coi “I Martini”, papà Ugo fisarmonicista e leader, a sedici anni, a suonare ballabili in feste paesane che potevano durare anche tre giorni. Tra Oristano e Paulilatino. Intorno agli anni ’70, rottamato gli anziani (altro che Renzi!) seguo l’ondata rock che impazza per l’oristanese, si contavano qualcosa come cento gruppi musicali. Finii a suonare con i “Salis”, Tonietto Salis un artista meraviglioso, nel ’73 registrammo un’ora di musica a Radio Cagliari, facevamo una sorta di folk-rock, influenzati dalla musica che arrivava da tutto il mondo, Area e PFM (Premiata Forneria Marconi n.d.r.). I Salis avevano l’impianto di amplificazione e questo non era una cosa da poco per quei tempi, garantiva una continuità di ingaggi notevole. Introducemmo, registrate, il suono delle launeddas, una novità assoluta per quel periodo; nel ’75 suonando “di spalla” in un concerto degli AREA al palazzetto dello sport di Cagliari, ci saranno state 6000 persone, portammo Aurelio Porcu, famosissimo suonatore di launeddas di Villaputzu, fece un assolo di dieci minuti, scatenando l’entusiasmo di un pubblico che forse le sentiva suonare per la prima volta, tre anni dopo a Milano uno come Demetrio Stratos ancora conservava un vivo ricordo di quell’evento. A Nuoro, a una festa dell’Unità, eravamo la spalla degli “Stormy Six”, e loro ci proposero, a me che suonavo il basso e a Tore Garau la batteria, di lasciare i Salis e fare il gran salto nel continente. Loro erano “cervelloni”, gli portammo ritmo e dinamica strumentale. L’album “Un biglietto del tram” è un vero e proprio manifesto di musica politica, non si può non citare ( e sentire anche qui) “Stalingrado”: “…l’orchestra fa ballare gli ufficiali nei caffè/ l’inverno mette il gelo nelle ossa/ ma dentro le prigioni l’aria brucia come se/ cantasse il coro dell’armata rossa…/. E poi “Macchina maccheronica”, miglior disco rock per la critica discografica tedesca del 1980. L’esordio con gli “Stormy Six”, a Madrid davanti a una folla sterminata e festante la scomparsa di Francisco Franco, è avvolto in una specie di nebbia tanta fu l’emozione dell’evento”. “Come componi, gli chiede Franco Pintore”. “In genere parto dalla musica, e poi sudo sangue per metterci dentro le parole. Ho coscienza che hanno una grande forza evocativa, preziosa perciò la collaborazione con Michele Pio Ledda (scrittore e poeta n.d.r.) che considero un “Mogol a cinque stelle”. I “Tanca Ruja” nascono nel 1977, esce un disco “In terra e in chelu”, un lavoro molto gratificante tra la tradizione e l’innovazione, con loro ho attraversato una fase molto elettrica e una seconda molto acustica. “Isettande”, una tra le più belle canzoni che abbiamo registrato e suonato in tutta la Sardegna, nasce proprio a Seneghe, al nuraghe Ruju”. A questo punto Mario Cubeddu legge il testo di una delle poche canzoni che Pino ha scritto in campidanese: “Chizzi chizzi in miniera”: “ … chizzi chizzi a mengianu tindi sesi pesau/ torrendi a gherrai po un’arrogu ‘e graboni/ chizzi chizzi a mengianu tindi sesi pesau/ po un’arrogu e craboni chizzi chizzi a mengianu…”. Dei “Tanca Ruja” scrive diffusamente Giacomo Serreli sulla sua enciclopedia della musica sarda “Boghes e Sonos”, a pag.720 parlando dei brani che contraddistinguono il loro repertorio dice che Tanca Ruja “non suona come il solito pop in lingua sarda e neanche la solita musica delle radici riproposta in bella calligrafia, è un modo ricercato ed inedito di testimoniare l’amore per la propria terra… Le composizioni superano la dimensione sarda, si danno un’anima universale alla quale non sono estranei umori africani, mediterranei”. Non è davvero un caso se Pino si è scoperto a produrre un album con Ambra Pintore (2014) e l’hanno intitolato:”Muriga”, mescola, tutto ciò che è impuro, meticcio, piacevolmente privo di un’identità troppo fiera di
sé. Inevitabile a questo punto interrogarsi del perché la realtà musicale sarda sia così marginale nel contesto nazionale, scompare quasi se la si paragona a quella del Salento ad esempio. Mariangela Gualtieri si lascia andare a dire che questo festival è uno dei più belli al mondo, ma voi (sardi) non ve ne rendete conto. Mario Cubeddu dice che va ripensata la “festa manna”, dove oramai impazzano solo cover e spettacolini. Non ha senso alcuno trasformare in senso pop l’Ave Maria, suonata con la batteria, né mutare materiali tradizionali a “pop” con ballerine scosciate a contorno. Non una parola di Pino sul suo lavoro di maestro di coro, a Milano, con “Sa Oghe de su Coro”, io e Eros Suà (sue le foto di Seneghe) e sua moglie Nadia, ci guardiamo costernati, ci cantiamo insieme oramai dal 2006. Ci consoliamo dicendoci: “E’ perché, prima o poi, ci vuol portare a cantare qui, a “Cabudanne de sos poetas”, non vuole sciupare loro la sorpresa!