L’identità delle donne sarde è un caleidoscopio che gli storici hanno fatto fatica a decifrare, troppo intenti a infilare in categorie precostituite anime mutevoli e complesse. Non c’è riuscito Francesco Gemelli che nel 1776 nel suo saggio“Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura” descrisse le donne sarde come pigre. Il professore emerito di Eloquenza latina dell’Università di Sassari vedeva in questa supposta pigrizia femminile nientemeno che una delle cause dell’arretratezza dell’agricoltura isolana. Ma a decifrare tale identità femminile non è riuscito nemmeno Alberto Della Marmora che ha espresso giudizi non troppo diversi verso le donne sarde descrivendole come un po’ troppo inclini alla danza e sostenendo che il compito principale delle donne fosse fare il pane, attività che, secondo lo statista Francesco Coletti, era la causa di una presunta scarsa dedizione ai figli che vedeva addirittura come causa dell’alta mortalità infantile nell’Isola. La realtà è che i lavori tradizionali che hanno compiuto e che continuano a compiere le donne sarde non possono descrivere in modo compiuto la loro identità, ma la loro analisi è un viaggio che merita attenzione perché, dalle gestualità che si ripetono inalterate nei secoli, si può scorgere qualche frammento di quell’essenza. A compiere questo viaggio in modo approfondito non hanno provato in tanti. A tentarlo in modo attento è stata la nuorese Assunta Dorgali, autrice di “Ruolo e saperi della donna nella società sarda tradizionale” (Europa edizioni), che, partendo da un volo ad alta quota che guarda al ruolo femminile nell’Isola dal campo agricolo pastorale a quello della tessitura, è scesa nel particolare sino a vedere da vicino il significato dei ricami e delle forme e i decori dei dolci tradizionali. Da questo viaggio si scopre l’elevato valore simbolico della gestualità nel lavoro femminile in Sardegna dove anche il semplice atto di cucinare assume una rilevanza sociale e culturale di enorme importanza, accompagnando e segnando in modo rituale gli eventi più importanti della vita, dalla nascita alla morte passando per ogni ricorrenza e festività. Tutte le fasi dell’esistenza sono scandite dall’intervento femminile. Il pane cerimoniale matrimoniale ad esempio, conserva i simboli dell’amore eterno, con le colombe, e la fertilità, con le spighe. Col “gattò” (o gateau) si costruivano delle vere e proprie sculture sacre, e commestibili, per le chiese durante le festività di santi. Tradizione che a Benetutti si conserva ancora intatta. Il lavoro femminile e il frutto di questa gestualità diventano indispensabili segni di appartenenza, tasselli di un ordine sociale, come un frammento immancabile dell’identità di un intero popolo. L’intero tessuto socio-culturale sembra sorreggersi tradizionalmente proprio su usi che vedono protagoniste le donne, come il gesto del donare pani, dolci e parti di animali uccisi a parenti e vicini coltivando una gestualità che solidificava una rete di relazioni. Un gesto che, secondo l’interpretazione diMarcel Mauss nel suo “Saggio sul dono”, in realtà non avrebbe nulla di spontaneo. Tutta la bellezza del dono verrebbe qui ridimensionata da una mancanza di gratuità poiché nel gesto sociale del dono, il donante si aspetterebbe il controgesto di essere ricambiato in modo da lasciare inalterato un equilibrio. In questo intreccio di relazioni il cibo assume fortissimi valori simbolici. Secondo l’etnoantropologo Alberto Maria Cirese l’arte della modellazione ornamentale e figurativa dei pani costituisce uno dei tratti culturali più rappresentativi della società sarda, interessante anche perché difficilmente riscontabile in altri luoghi. Il gesto di realizzare tali prodotti è considerato di tale importanza che la perfezione della realizzazione è un’apettativa sottoposta al giudizio della comunità. La produzione dolciaria tradizionale si trova dunque in equilibrio stabile in un terreno che oscilla tra la sopravvivenza (elemento a cui si collega il cibo secondo un significato ancestrale), la bellezza (cucinare diventa gesto d’arte plastica) e la cultura e l’identità di un popolo. Elementi che ha ben espresso l’antropologa dell’Università di Cagliari Gabriella Da Re che in “I pani e i dolci. Il lavoro, i luoghi, i gesti della panificazione” (in AA.VV. Il Museo etnografico di Nuoro, Banco di Sardegna, Sassari) li descrive come fortemente presenti soprattutto nelle feste e cerimonie dove la produzione di pani e dolci costituiva occasione di ostentazione pubblica e ricerca di consenso da parte della comunità. All’abilità del gesto si unisce il Sapere. La preparazione richiedeva una conoscenza profonda nell’uso di utensili e nelle nozioni empiriche legate ai processi chimici e fisici della panificazione.
Il lavoro – e si parla al passato perché il riferimento temporale è principalmente il periodo pre industriale, ma tutt’ora diversi luoghi conservano le stesse tradizioni – non doveva essere fatto bene, doveva essere perfetto, eccellente. Se non era perfetto, andava rifatto. La donna, pertanto, a differenza di quello che hanno cercato di sostenere gli storici, secondo Assunta Dorgali avrebbe ricoperto un ruolo basilare. Lo studio è andato di là dei pregiudizi storici che vedevano la donna relegata a ruoli marginali nella società. Il suo saggio copre quindi la lacuna sullo studio sulla funzione della donna nel campo sociale e lavorativo, esaminata attraverso il suo saper fare quotidiano nelle produzioni tradizionali di dolci, pani e ricami. Il suo ruolo secondo questo studio, sarebbe quindi centrale nella società sarda preindustriale, al pari di quello del pastore e dell’agricoltore e, comunque, dell’uomo. Il lavoro della donna sarebbe stato dunque rilevante e riconosciuto dalla comunità, atto a creare equilibrio sociale anche nel segnare appartenenza di ceto e di luoghi, poiché il lavoro era relegato alle donne di classi medio basse e ogni lavorazione corrisponde a determinate zone geografiche. Questo ruolo centrale corrisponde al vero? Potrebbe anche trattarsi di una forzatura atta a voler regalare una luce che in realtà non esiste su un ruolo che in realtà è rimasto tragicamente e ineluttabilmente in ombra, ma è un punto di vista interessante e il viaggio è sempre comunque arricchimento. Quando poi il viaggio è un’analisi che passa dal cibo, la visione antropologica che regala non può che essere affascinante. Come sostenne Claude Lévi-Strauss, è un’analisi che avvicina l’Uomo al cosmo, come se fosse un viaggio che dal microcosmo individuale porta al macrocosmo universale. Un processo alchemico che trasforma l’analisi del singolo gesto del decorare un Cogone de saba nella visione dell’identità di un intero popolo.
* La Donna Sarda