Sabato 22 ho avuto il piacere di presentare alla Libreria Editrice Goriziana “La storia di Flora” (Vertigo, 2013). L’autrice è Maria Carla Sanna, insegnante cagliaritana in pensione, che racconta la storia di vita di sua madre Elsa, Flora nella finzione letteraria. Flora nasce a Vrtojba, piccolo centro a quattro km da Gorizia, ma in quegli anni territorio dell’impero austro-ungarico: in piena Prima Guerra Mondiale, durante la battaglia di Gorizia del 1916, Flora, sua madre e i suoi fratelli lasciano il paese per rifugiarsi in Austria, dove rimarranno da profughi fino alla fine del conflitto. Nel 1918 la famiglia torna a Vrtojba, ma il paese, distrutto dalle bombe, è ora entro i confini italiani, e costretto ad una italianizzazione forzata. Dopo alcuni anni di patimenti, a sedici anni Flora va via, trascorre un periodo a Milano per poi arrivare negli anni Trenta a San Nicolino (S. Gavino Monreale) e sposarsi alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. La sua vita viene così ricostruita attraverso i ricordi della figlia, con i racconti delle amiche di Vrtojba e dei pochi parenti rimasti.
La storia di Flora è un racconto di emigrazione, di radici e di identità, e in questo senso è una storia molto sarda, sebbene Flora sia nata in territorio sloveno e in Sardegna ci sia arrivata per una strana traiettoria di vita. Come molti Sardi,per i quali l’emigrazione è stata, e continua ad essere, una caratteristica del DNA, così Flora diventa una disterrada, tolta dalle sue radici che le lasciano una voragine dentro per tutta la vita che si dipana a cavallo delle due grandi guerre: ma le sue radici identitarie, quelle che appartengono alla sua memoria, Flora le mantiene in tutto il suo percorso sul confine tra Italia e Slovenia, e le rivendica ripetutamente fino alla fine del libro quando dice “Io sono di Gorizia” perché, nonostante un’esistenza altrove, è a questa città che sente di appartenere. Flora cerca di mantenere anche la sua identità linguistica: a seguito della ripartizione dei confini alla fine della grande guerra, lei e i suoi familiari cessano di essere sudditi dell’impero austro-ungarico e diventano sudditi del regno d’Italia, in cui è forte lo spaesamento dovuto alla italianizzazione dei nomi e al divieto di usare lo sloveno, che viene relegato a idioma domestico e alla recita delle preghiere.
Sono gli effetti della guerra, “evento orribile e intollerabile” che fa “prendere coscienza della fortuna di nascere, crescere e vivere in tempo di pace”: La storia di Flora è pervasa da una continua ricerca di senso per quello che accade a lei e intorno a lei, come nella poesia Destinos de cuna di Alberto Mario DeLogu: “Dammi un senso/madre/bella madre/dammi un senso/del mio esserti figlio, e non d’altri/Padre/dammi un perché/ricco padre/del mio esserti diletto, e non d’altri/Dammi un senso/del mio fiocco bianco/e colletto stirato/e del loro cappio unto e sgualcito/del loro moccio al labbro/unghie rigate di nero/e tanfo d’urina”. Paola, figlia di Flora, nel raccontare sua madre richiama un proverbio africano, e dice: “La vita di mamma non è stata una scala di cristallo”. Più e più volte Flora si interroga sul senso della sofferenza che la affligge sin da bambina, e da questa ricerca di senso riesce a dare maggiore consapevolezza al suo percorso, trovando la forza per andare avanti: la forza psichica, la forza delle relazioni che stabilisce nel suo cammino, la forza dell’accettazione di quello che le accade. Questa ricerca di senso aiuta Flora a sviluppare la sua resilienza, la capacità di resistere agli urti di una vita segnata da numerosi lutti, e ad elaborare il caos che ha caratterizzato il suo percorso attraverso il racconto della sua esperienza. Quello di Flora è, quindi, un coraggio senza resa, che attraversa i confini, la grande città e, infine, il mare.