di Sergio Portas
Scrive Alessandro Oppes da Madrid (“La Repubblica” 28 settebre ) che Artur Mas, governatore catalano, circondato dal suo governo al completo, ha firmato il decreto di convocazione del referendum separatista per il prossimo nove di novembre: “ la Catalogna vuole parlare, vuol essere ascoltata e vuole votare”, lo ha detto prima in catalano, poi in spagnolo e in inglese. Vedremo come finirà questa sfida, la costituzione spagnola non prevede alcun referendum separatista e il governo di Madrid ha già fatto ricorso alla corte costituzionale per dichiararlo illegittimo. L’intero mondo che conta (questi sì che sono poteri forti), Wall Street, la City di Londra, la BCE e tutti gli stati occidentali, si erano appena ripresi dallo spavento che avevano loro provocato gli scozzesi, con le loro ubbie di indipendentismo, con la pretesa di ridisegnare confini nazionali sanciti giusto trecento anni fa. E si sa come vanno queste cose, se la sterlina fosse tracollata, come era nelle cose se avessero vinto gli amici di James Bond (leggi Sean Connery), avrebbe tirato giù il già malconcio euro e, con lui le borse del mondo tutto, il dollaro e l’intero impero finanziario che sorregge il modo capitalistico di produrre ricchezza, e anche qualche disastro, ciclicamente. Dice che i sedicenni hanno votato sì, i pensionati invece no. Non so se sia vero ma non mi stupirebbe che siano stati i giovani a voler provare a mutare un orizzonte che, soprattutto per loro , si è fatto sempre più fosco. Dove si intravvedono sempre più robot che faranno gran parte dei lavori che svolgono oggi i loro fratelli maggiori e i loro papà, senza sindacati e articoli 18, finalmente la pace sociale nelle fabbriche. Primo premio della lotteria di capodanno: un posto di lavoro a tempo indeterminato. Anche per questo mi aveva convinto Michela Murgia parlandomi del progetto politico di ProgReS, che si rivolge soprattutto alle nuove generazioni, sono loro che si devono costituire “a popolo” e rivendicare la costruzione di uno stare insieme politico altro da quello che hanno sperimentato i loro padri e nonni. Se non ci riuscissero, come dice quel tale sindaco di Elmas, tocca tirare giù le valige e saltare il mare. A questo proposito rubo l’incipit a Simone Mosca del suo articolo del 12 giugno scorso su “Repubblica” perché è troppo bello (titolo: “Su Populu Sardu”, Fresu, Cucciari & friends ritratti di isolani nel mondo): “Chi passa i mari muta il cielo, non l’anima” diceva il poeta latino Orazio. L’articolo, un’intera pagina con un titolone grande così, dava conto di una mostra fotografica messa su da Daniela Zedda, fotografa cagliaritana che collabora con riviste e giornali nonché editori e teatri, due anni di scatti a dei sardi che hanno lasciato l’isola, per scelta o per necessità, e hanno dovuto mischiare la loro anima con quelle che hanno incontrato lontano dalla Sardegna. La mostra titola “aldilàdel mare” e qui a Milano era ospitata nello showroom di Antonio Marras, un posto fantastico dove anche un letto di ferro arrugginito messo vicino a una stufa di ghisa altrettanto malandata che regge secchi di zinco che si atteggiano a vasi di fiori, vale da solo il piacere di farvi una visita. Lui, il padrone di casa, nel ritratto che apre la mostra, dismessi gli eterni jeans con allegate scarpe da ginnastica, è seduto su di un lucidissimo pavimento di Palazzo Clerici, con alle spalle le dorature e le cristallerie illuminate da lampadari che neanche a Versailles, vero principe medievale. Anche se, una volta lasciato Alghero alla volta di Milano e Tokio e Parigi, nella sua città natale non solo ci è ritornato ma è lì che vuole continuare a creare le collezioni che vende in tutto il mondo, lì che vuole vedere crescere i suoi figli, lì continuare a sentirsi catalano (anche lui!) e magari anche sardo. Non che gli algheresi siano tutti così, Gavino Sanna quando ero andato a intervistarlo nella sua dimora milanese ( non posso scrivere casa: è un museo) mi aveva detto che, quando è lontano, sente sempre un’acuta nostalgia della natia Alghero ma che, quando ci ritorna, dopo una settimana ha già voglia di scapparsene via. C’è anche lui ritratto in una foto che sarà almeno due metri per quattro, in sparato nero e camicia bianchissima, fazzoletto candido che sbuca prepotente dal taschino della giacca, i sempiterni lunghi capelli pettinati all’indietro, il viso grave come si conviene a uno che ha vinto non so bene quanti Oscar per la pubblicità, quando in America (Stati Uniti) era stipendiato dalla Coca Cola. Il “creativo” per antonomasia. Se è vero che i fotografi hanno l’ambizione di fissare per un istante l’anima dei loro soggetti occorre dire che la Zedda ha fatto in modo che essa si riverberasse in un contesto atto a suggerirne l’intima essenza. Così Gavino è immortalato tra le sue sculture lignee rappresentanti santi medievale e valletti moreschi, le pareti alle sue spalle coi grandi dipinti dai colori appassiti dal tempo, e i grandi divani di pelle d’esotici animali. Geppi Cucciari è in atteggiamento da “femme fatale di Macomer”: morbidamente adagiata su di un tappeto che non sfigurerebbe nella moschea blu di Istanbul, nonostante l’abito nero scollato da gran sera, ha uno sguardo che preannuncia una delle sue battute “tranchant”, appena ti azzardasti a chiederle cosa ci fa così distesa. Marcello Fois che da Nuoro ha posto la sua residenza a Bologna si fa riprendere nella splendida biblioteca Salaborsa, all’interno di palazzo d’Accursio, dalla pavimentazione trasparente sulle rovine di edifici felsini- etruschi e della Bononia romana. Lui Marcello è in atteggiamento pensieroso, rimuginante qualche fuga di banditi su per il Sopramonte di Orgosolo. Come è pensoso Paolo Fresu, pure lui a Bologna, dall’alto del Santuario di San Luca (dizione esatta: santuario della Beata Vergine di San Luca) dall’alto dei trecento metri del colle della Guardia Paolo sembra pensare ai contrafforti del Limbara, che fanno da ben altra quinta alla natia Berchidda. Comunque una foto di Paolo Fresu senza tromba è di per sé una rarità. Le foto sono 75 ed erano 88 in originale ma qui non c’era spazio per tutte. Non sono tutte di gente famosa, Assunta Pattara, orgosolesa, è ritratta tra le sue mucche a Traversetolo, provincia di Parma. Mentre Tonino Gungui di Gavoi disosssa prosciutti a Langhirano, sempre nel parmense. Ma è scontato che siano i ritratti di quelli che ce “l’hanno fatta” ad attirare gli sguardi dei visitatori. Maria Giacobbe a Copenaghen, da dove è riuscita a scrivere libri bellissimi ambientati in Sardegna, neanche dalle sue finestre danesi vedesse sorgere il sole inondando d’oro le spighe del Campidano. Anna Deplano è al museo del ‘900 dove forse sono alcuni dei suoi lavori di designer. Paolo Piras, giornalista di Rai tre è all’EUR con alle spalle lo splendido palazzo delle civiltà. Tore Garau, pittore e batterista (Stormy Six), lui sì con gli eterni jeans e scarpe da tennis regolamentari, seduto al Parco Sempione di Milano, pensoso delle spiagge di Torregrande dove risiede d’estate. E ancora Cristiana Collu, cagliaritana che ha lasciato la direzione del museo di Nuoro per quello più prestigioso di Rovereto, il Mart, con stipendio congruamente aumentato. Della serie: come farà la Sardegna a tenersi stretti i suoi figli più talentuosi, visto la congiuntura economica che sta attraversando. Dice Daniela Zedda che le sue foto sono la prova della capacità dei sardi nel sapersi integrare, di far rivivere mestieri antichi della nostra terra in luoghi diversi. E in queste sue grandi foto c’è uno spaccato della diaspora che ha trovato modo di costruire la sua fortuna al di là del mare di Sardegna. Se il prossimo referendum per l’indipendenza sarda ( prima o poi si farà, ne sono certo) manterrà i criteri di quello scozzese, molti di questi personaggi non avrebbero neppure diritto di voto. Ma forse verrà dato anche a loro una possibilità d’esprimersi, che ognuno si sente figlio legittimo di quell’isola che ha impresso forma indelebile alla lo
ro anima. Che ancora parla nella lingua che li ha svegliati alla vita, di quelle ninna nanne che li hanno fatti addormentare, la culla vicino al fuoco del caminetto, piene di promesse per un futuro fatato, che di viaggi oltremare mai avrebbero neanche accennato: “Ninna nanna pizzinnu, ohi ninna nanna…Unu caddittu t’apo a comporare/ cun sedda bella e cun frenos de oro/ des’andare in Gaddura e Logudoro/ e tott’a tie deven invidiare…” come scriveva quel Montanaru, desulese, per la nascita del figlio Antonello, neanche alla metà del novecento.