di Martina Marras*
Stefano Cucca non crede negli eroi. Lui che, lo scorso anno, ha girato il mondo in bicicletta. 32mila chilometri: dall’Italia verso il nord Europa. Poi L’Islanda, gli Stati Uniti, il Giappone. La Cina, il Vietnam e la Cambogia. La Thailandia, la Malesia, Singapore e poi l’Indonesia. Infine l’Australia, la Nuova Zelanda, il Sudafrica per imboccare la via del ritorno, passando per Turchia e Grecia. Una vita passata a lavorare con i numeri e i profitti, con la voglia di andare oltre il puro lucro. Prima di essere ‘Rumundu’, come molti lo chiamano ora, Stefano era il direttore finanziario di un consorzio di cooperative sociali.
Com’è nata l’idea di Rumundu? Facevo delle riflessioni sul fatto che, nel mondo, 85 uomini guadagnano, ogni anno, quanto tre miliardi e mezzo di persone. Perciò due anni fa ho partecipato ad una startup competition per creare una piattaforma dove le persone potessero scrivere, leggere e condividere modelli di sviluppo economico alternativi a quello consumistico. Sono partito per gli Stati Uniti, e loro mi hanno detto che il progetto era interessante, cool eccetera eccetera, ma mi hanno anche suggerito di trovare un modo per promuoverlo. Due anni fa pensavo anche che sarebbe stato molto bello girare il mondo su due ruote e allora il progetto si è trasformato nel giro del mondo in bicicletta per andare a cercare storie e stili di vita sostenibili. Inizialmente si era pensato a un progetto editoriale abbastanza in grande: un camper, le riprese, una troupe. Sarebbe però servito uno sponsor e, considerando che è difficile trovare un’azienda sostenibile che abbia fondi a sufficienza, ho declinato una serie di offerte che non mi sembravano aderenti al mio progetto. Sono partito senza camper, senza cameraman, senza social media marketing, senza tante cose. Sono partito da solo, con cinque borse, l’otto giugno dell’anno scorso e sono tornato l’otto giugno di quest’anno.
Completamente solo? Completamente solo…“solo’” è un concetto molto relativo. Credo che nei palazzi intorno a noi ci sono persone sole nel vero senso della parola. Anziani abbandonati, genitori che non hanno rapporti con i propri figli. Io sono partito solo, ma ho conosciuto tantissime persone, ho contatti in tutto il mondo. Non ho difficoltà a chiacchierare e la mia bicicletta è stata quasi una calamita, aveva un effetto attrattivo particolare sulla gente. Prima di partire avevo qualche appuntamento già fissato in Italia, a Friburgo, in Commissione europea a Bruxelles – dove fra un mese farò un intervento. A Chicago, per incontrare i responsabili di Barilla Us. Ho parlato con amministratori delegati di multinazionali, ma anche con il proprietario di un chioschetto a chilometro zero che vendeva patate in Arizona.
Come hai fatto a incontrare tutte queste persone? Avevo già qualche contatto, perché con il mio lavoro mi ero occupato di progettazione europea, anche all’estero. In realtà, dopo poco tempo, diventò un problema riuscire ad andare a tutti gli appuntamenti che avevo. Man mano che procedevo si accumulavano, imponendomi qualche deviazione rispetto al percorso che avevo previsto. A qualcosa ho dovuto rinunciare perché altrimenti sarei stato fuori dieci anni.
Un’altra cosa che sembra impossibile sono i 32mila chilometri percorsi in bicicletta. Si può fare, ovviamente. Io facevo delle gare molto impegnative di Triathlon. Le facevo per hobby. Avevo poco tempo in settimana, perché lavoravo molto, però facevo undici ore di allenamento nel weekend. È stato così per tanti anni, nei quali ho maturato un’accurata conoscenza del mio organismo che mi ha permesso di autogestirmi bene durante il giro. Pedalavo per circa 100-150 chilometri giorno. Ovviamente per chi non è mai andato in bicicletta diventa impossibile, mentre la verità è che è tutto molto relativo. Io credo che chiunque potrebbe farlo, magari iniziando con 50 chilometri al giorno, e poi 60 e poi via via.
Come avevi pensato il tuo viaggio, prima della partenza? Fino al giorno prima della mia partenza stavo lavorando, poi ho lasciato casa, venduto la macchina, la tavola da surf, lo snowboard, perché non avevo più lo spazio materiale per la mia roba. Avevo pensato al giro, almeno a grandi linee. Prima di partire sull’agenda avevo 12 appuntamenti in Europa, qualcuno negli Stati Uniti e in Giappone. Sapevo più o meno anche quando sarei arrivato nei posti, ma non avevo organizzato le tappe nel dettaglio. Pianificare 30mila chilometri in giro per il mondo è impensabile, anche per chi lavora con i numeri. Sarebbe stata una cosa poco sostenibile, avrei impiegato troppo tempo. Quindi chiedevo informazioni per strada, che è la cosa più bella, e davo uno sguardo alle cartine. Inizialmente scrivevo spesso sul blog: avevo un pannello solare, ma dopo qualche tempo l’ho regalato e usavo pochissimo i devices, quindi il progetto, dal punto di vista editoriale, è diventato più lento. Ma più sostenibile, al ritmo di una persona che faceva tanti chilometri al giorno e le cui priorità erano avere acqua a sufficienza, mangiare, trovare un posto per la tenda, e arrivare all’appuntamento nel tempo previsto.
Hai passato un anno a dormire in tenda? Dormivo in tenda tre o quattro volte a settimana. Ma è una cosa che fa parte della mia vita, non ci trovo niente di strano. Per me l’albergo migliore del mondo è la natura. Le strutture più esclusive cercano sempre di mettere in evidenza che dalla loro terrazza puoi vedere un bellissimo tramonto e le stelle, che c’è tanto verde intorno, che il mare è a un passo. Io queste cose le ho gratis, in Thailandia come a Mari Pintau.
Un aneddoto curioso del tuo viaggio Una volta in Australia sono stato svegliato da un wallaby che mi grattava la testa. Avendo sentito l’odore del cibo, cercava di aprire la tenda. Io, che ho un sonno molto profondo, ho continuato a dormire per un po’, sognando che fosse una ragazza a toccarmi i capelli. Cose del genere me ne sono capitate tantissime, tutto è stato molto curioso. È un’esperienza talmente particolare che è difficile parlarne senza banalizzarla. Anche prendendo gli Stati Uniti, che sono forse il posto meno interessante nel quale sono stato, mi sono capitate cose bellissime. Pedalavo in rettilinei di 50 chilometri, immensi. Poi mi fermavo, per mangiare e riposarmi, suonavo l’armonica e nel giro di niente mi ritrovavo con un sacco di mucche intorno ad ascoltarmi.
Una delle prime domande alle quali avevo pensato mi sembra ora meno appropriata, ma provo a farla ugualmente: in quest’anno hai mai pensato ‘ma chi me l’ha fatto fare?’ Me lo chiedono tutti. Secondo me la natura di questa domanda nasconde le paure di chi la fa. La risposta è no, ma perché questa è la mia normalità.
Ci saranno stati, però, dei momenti di difficoltà Sì, ma anche questo è molto relativo. Ho rotto la bicicletta, nel deserto, in Arizona. Ho spaccato il movimento centrale, l’unico pezzo che non avevo. Quando è successa questa cosa ho capito di essere davvero una persona calma. Mi sono accorto di aver rotto la bici in discesa, non ho frenato e ho continuato a scendere. Ho pensato che il successivo paese distava circa 200 chilometri, quello che avevo superato due giorni prima era a 120 chilometri. Mi sono detto: ‘Okay, è mezzogiorno e ho fame: mi faccio la pasta’. Ho acceso il fornellino, ho fatto i fusilli con le noci, il tonno e i pomodorini e ho aspettato che passasse una macchina. Per quattro ore.
Una vera prova di autocontrollo Io non credo nei super eroi, svengo per un prelievo di sangue. Non credo nemmeno nel mitizzare le cose fatte. Ho lavorato tanto prima del giro, ho costruito la mia vita in modo da poter fare queste cose, ho rifiutato posti di lavoro perché volevo la mia indipendenza. Ognuno è in grado di fare tantissime cose, ma ci vuole impegno, niente arriva con facilità.
Hai visto il mondo: c’è un posto al quale sei rimasto maggiormente legato? Più che i posti, ricordo la gente. Ho conosciuto persone fantastiche. Belle, soprattutto dentro.
Pensi di essere riuscito a comunicare fino in fondo con loro, pur confrontandoti con culture tanto diverse? Dire di sì sarebbe presuntuoso, ma comunque ci ho provato. Sento ancora molte delle persone che ho incontrato.
Ripeteresti l’esperienza con un team al seguito, o è stato meglio farlo da solo? No, sarebbe un’esperienza completamente diversa. Io la rifarei da solo o con la mia famiglia, con la mia donna e i miei figli. Prossimamente mi piacerebbe fare qualcosa con la barca a vela e sarebbe bello portarci i miei figli, se li avrò. Negli Stati Uniti mi ospitò per caso una signora settantenne. Mi raccontò di suo figlio, che aveva fatto il giro del mondo in catamarano con i suoi tre figli e questa cosa per me è stata un segnale.
Hai molta fiducia nelle persone? Tendo a fidarmi molto. Ma non sono cresciuto in una bolla, so mettere i limiti. Ho dormito a casa di sconosciuti senza problemi, mentre ho preferito passare la notte accampato nel cimitero di Flint, che è una delle città più pericolose degli Stati Uniti.
Una donna potrebbe fare da sola la tua stessa esperienza? Una donna può fare le stesse cose che potrebbe fare un uomo. Facendo attenzione, che vuol dire, semplicemente, avere consapevolezza del mondo.
Cos’è diventato ora Rumundu e cosa vorresti fare adesso? Mi hanno chiamato dagli Stati Uniti, e da varie parti del mondo, per fare cose molto interessanti. Ma io sono una persona banale, semplice, per cui mi piacerebbe fare qualcosa in Sardegna. Vorrei occuparmi di innovazione sociale, sviluppare business con l’obiettivo di migliorare la vita delle persone e non di diventare miliardari. Torno al nord, riprendo a lavorare come direttore nel consorzio che seguivo prima di partire. Farò una startup con le biciclette. Ho un progetto in favore degli homeless di Cape Town. L’idea è quella di insegnargli ad aggiustare biciclette, farli lavorare a centro città e dar loro una casa. Ho una serie di proposte in ballo. Mi piacerebbe lavorare all’università per mettere in dubbio alcune teorie economiche. E poi rilassarmi un po’, fare windsurf nel week end.
* La Donna Sarda
Un mito…e se ne parla sempre troppo poco!!!!Bravi “Tottus in pari”