Confesso di vivere con un certo disagio questi nostri tempi di neologismi imperanti (perlopiù d’origine inglese) che ci impongono i Social Network (reti sociali in italiano). Nè è pensabile che le generazioni nate all’ombra immensa di Internet possano riuscire a scampare dall’iscrizione a Facebook o a Twitter, che è assolutamente obbligatoria per ogni ragazzino che abbia appena finito la quinta elementare. Semplicemente se vuole continuare ad “esistere” nel gruppo dei pari. Ho letto quindi con fastidio che l’hasthag in lingua inglese contro il femminismo (#womenagainstfeminism), con cui le ragazzine americane “postavano” la loro immagine nella “rete”con cartelli in cui spiegavano come si sentissero lontane dalle problematiche che tanto avevano intrigato l’esistenza delle loro madri e nonne, aveva avuto un successo planetario. Loro, in estremissima sintesi, del femminismo non se ne facevano un bel nulla, che erano già abbastanza libere così, almeno nei paesi fortunati dove gli era capitato di nascere. Se poi quei bei maschietti del “Califfato” prossimo venturo, già arrivati a Mosul (l’antica Ninive, già citata nella Bibbia, una città di più di 2 milioni di abitanti) si ripromettono di infibulare al più presto almeno 40.000 donne, certo ci fa orrore ma non ci riguarda. Nè che in India il numero degli stupri su bambine che non hanno ancora dieci anni raggiunga cifre impressionanti, per non parlare di tutte quelle che, indiane e cinesi pure, non sono state mai “fatte nascere”, e chi se ne frega visto che noi viviamo a Chicago o Berlino o Milanofiori. O siamo nati maschi. Gli è, care sorelle minori, che la cultura patriarcale che, salvo eccezioni davvero poco significative, marchiano da secoli le radici culturali del mondo che conosciamo, regolano le donne ai posti più infimi della scala sociale. E’ il femminismo che da sempre si è ripromesso di porre freno e di cancellare definitivamente questa disparità, che è culturale e politica allo stesso tempo. Vasto programma, come diceva De Gaulle pensando al governo della la Francia, un paese che conta duecentossesantacinque tipi di formaggio. Al circolo sardo di Milano in Santorre di Santarosa, Maria Grazia Longhi con Luisa Milia (che hanno fatto gran parte del lavoro di editing) e con loro Maria Antonietta Calledda, hanno presentato un libro intitolato: “Compagne di Parola”, storia di donne del collettivo femminista di via Donizetti, Cagliari. Altrestorie Aipsa edizioni. Ponderoso di oltre 350 pagine, raccoglie testi, volantini, articoli di giornale, microricordi alla George Perec ( “Je me souviens” , Hachette 1978) foto di quei tempi, facendoti rivivere un’epoca non così lontana di una Sardegna ancora assopita nelle nebbie de “su connottu”, che non ci pensa proprio a lasciare spazio a un pensiero che si propone di ribaltare rapporti sociali e famigliari incrostati da secoli di storia. Non è un caso che molti dei testi del libro si riferiscano spesso con astio agli atteggiamenti di negazione che le madri assumevano nei confronti delle “femministe militanti”, le loro figliole che tutto contestavano del tipo di vita che veniva loro riproposto nel futuro. Pasqualina De Riu esordisce ricordando gli slogan che caratterizzavano le manifestazioni tutte al femminile che si svolgevano in quel periodo, il famosissimo: “il corpo è mio e lo gestisco io”, e: ”tremate, tremate, le streghe son tornate”. Io mi ricordo… “il ricordare ci dice più del presente che del passato. La memoria di oggi è punto di arrivo. Nel ricordo c’è il cammino che esso ha fatto dentro di noi. Che tendiamo a riviverlo come sensazione, nostalgia, il mai più. Le madri viste spesso come modello negativo, le nonne più protagoniste in famiglia forse perché riconosciute di un potere guadagnato con l’età. La parte centrale del libro incentrata sui ricordi della maternità. Quella finale è la più “politica”, la scrittura diviene più saggistica, e riguarda il collettivo, luogo mitico della libertà, dello star bene assieme. Luogo della militanza, luogo della conoscenza, luogo del partire da sé. I temi di sempre: separatismo, autocoscienza, conoscenza del corpo, divorzio, aborto, violenza sessuale. E’ un pregiudizio che il femminismo si ponesse in antitesi alla maternità, sicuro che rifletteva su temi affermanti che di madri si vive ma si può anche morire, non a caso Freud vede la madre come una testa di Medusa capace di pietrificare chiunque osasse posare sguardo sui serpenti che l’ornavano dal capo. Dice Maria Grazia Longhi: “non si trattava di scrivere “bene”, ma di essere sincere” e scrive (pag. 45, in cronaca degli atéliers di scrittura): “ Ritrovarsi è stato il primo passo, e insieme pensare… una folla di personaggi, genitori, nonne, zie, domestiche, insegnanti è uscita dall’anonimato… di quelle vite ordinarie abbiamo detto quale carico di affetti, di forza o di fragilità ci avessero lasciato; e quanti valori, anche inconsapevoli, anche nella loro vanità, quante gioie e sofferenze che sembravano dimenticate…”. Luisa Milia (insegnante, ricercatrice in campo linguistico, formatrice, saggista ecc.) si sofferma sulla casa dell’infanzia come tema centrale, a ricostruire una geografia dei luoghi e degli affetti. Con le fontane, i cortili, “sa lolla”, il forno, che stemperano la loro fisicità, materialità a divenire simboli di un’epoca. La casa come vivente, magari costruita in proprio mediante l’aiuto della famiglia allargata: “s’aggiudu torrau”, a fondo delle moderne banche del tempo. Casa come simbolo femminile in assoluto dove, anche, si scatenano violenze incredibili.
Certo il panorama sociale italiano è cambiato, quindi i documenti prodotti dal collettivo sono stati riletti e contestualizzati. Cosa che solo la scrittura ha reso possibile. La presa di parola orale oggi è presa di parola scritta ( è noto che si twitta in 140 caratteri). Maria Antonietta Calledda narra della famiglia del suo babbo, di Aritzo, nove maschi e tre femmine, gli uomini erano tutti cantori, poeti improvvisatori, ma chi era brava più di tutti cantava in casa: la nonna. Aritzo, dice per chi non lo sapesse, e tra i presenti c’è qualche continentale, viveva allora di una economia itinerante. La carapigna che si faceva con la neve dei suoi monti era esportata per tutto il Campidano. E come tornavano a casa, gli uomini di Aritzo, portavano con sé il canto dei poeti che avevano incontrato nelle feste dei paesi che avevano visitato. Legge alcune pagine che parlano delle fontane dell’infanzia, lo scorrere di quelle acque che solo l’orecchio allenato del nonno riusciva a differenziare l’una dall’altra. E Maria Antonietta, memore di tanta stirpe di poeti canori, canta per noi, “a goggius”, in sardo naturalmente: “pensendu seu a tie…”. A 7 anni è emigrata da Aritzo a Cagliari con la famiglia, era il ’59 e allora si “emigrava” all’interno della Sardegna, e fortuna che nonno a Cagliari ci aveva fatto il militare e poteva dirlo alla sua nipotina preferita che questi cagliaritani parlavano in modo un po’ strambo ma si capiva (quasi) tutto. E che se avesse avuto anche la minima difficoltà nel districarsi delle vie sarebbe arrivato lui, a spiegarle come orientarsi. A grande richiesta la facciamo cantare di nuovo, e si ripete la magia dei versi sardi che si mutuano in canzone civile, che tutti accomuna. Quarant’anni fa la costituzione del Collettivo femminista di via Donizetti, qualcuno glielo deve dire alle postatrici di #donnecontroilfemminismo che è anche grazie al loro lavoro, alla loro determinazione, che si possono prendere il lusso di riproporre certi punti di vista, Michela Murgia, su “Repubblica” del primo agosto ( titolo:Io rivendico di essere “arrabiata e vetero”), magistralmente come sa: “…vorrei continuare ad essere definita come “sporca femminista”, con fierezza …lottare contro disuguaglianze di genere era e rimane un lavoro socialmente lurido… perché il passato del movimento delle donne rappresenta la ricchezza dalla quale tutte adesso possiamo permetterci di guardare avanti…”.