di Stefano Serusi
Ciao Valentina, in merito alla tua presenza in Grecia in questo periodo, avendo sentito in Italia molte semplificazioni sulla situazione lì, mi piacerebbe porti qualche domanda per tentare di chiarire alcuni di questi dubbi. Inizio però facendo qualche passo indietro, chiedendoti di cosa ti occupi e quali negli ultimi anni sono le esperienze che reputi più importanti.
Sono un’archeologa classica, titolo che trovo obsoleto e che, in ogni caso, mi corrisponde solo da un punto di vista accademico. Avendo intrapreso un percorso di studi orientato alla carriera universitaria, mi occupo di ricerca. Se però dovessi scegliere una definizione non convenzionale, direi che mi sento un’archeologa umanista. Noi europei ci siamo allontanati troppo da quelle premesse ideologiche e culturali che portarono al Rinascimento e avremmo bisogno di tornare alla scoperta della nostra profondità ripartendo ancora una volta dalle humanae litterae. In quest’ambito l’archeologo ha un ruolo fondamentale, a patto che capisca che nel XXI secolo la vera sfida non è il potenziamento della ricerca scientifica tout court ma la relazione di quest’ultima con il mondo contemporaneo. Per quanto riguarda le esperienze che mi hanno segnato, non posso che menzionare i progetti di cooperazione in Tunisia, l’insegnamento all’Università di Mohammedia, gli scavi nel Rif marocchino, le esplorazioni in Algeria. In Nord-Africa, dove le rovine hanno un enorme impatto visivo ed emozionale ma sono spesso immerse in contesti di povertà e sottosviluppo, realizzi quanto siano inutili gli esercizi intellettuali fini a se stessi. Non basta scrivere un buon articolo in una rivista referenziata per considerarsi dei bravi archeologi. Ciò che conta, per me, è salvare le memorie in pericolo, contribuire alla comprensione delle identità composite, creare consapevolezze utili alla valorizzazione e all’integrazione del patrimonio archeologico nella società. In altre parole, noi archeologi dovremmo saper guardare indietro senza distogliere mai lo sguardo dal presente…, infondendo anzi al nostro tempo la bellezza che abbiamo ereditato dagli antichi.
Nel tuo lavoro il viaggio sia temporale che fisico ha una valenza molto chiara. Attraverso Cerchio (http://cerchiomagazine.wordpress.com/), che si occupa di arte contemporanea, mi piacerebbe chiederti quanto ti abbia coinvolto la vita di oggi in quei territori, e se e dove pensi che il riconoscimento dell’importanza della cultura e della scoperta della propria identità sia stato maggiore.
Riallacciandomi alla precedente risposta, direi che è proprio perché la vita attuale di quei paesi mi coinvolge totalmente che riesco a dare un senso al mio lavoro e, di riflesso, alla mia esistenza. Per rispondere, invece, alla seconda parte della domanda devo riferirmi ancora al Maghreb, che è la regione dove ho soggiornato più a lungo fuori dall’Europa. In Tunisia, ad esempio, la rivoluzione del 2011 è partita dalla lotta per il lavoro ma – alla caduta di Ben Alì – la questione identitaria si è imposta da subito come uno dei fattori decisivi per il processo di democratizzazione. La Tunisia è stata, fin dalla più remota antichità, un crogiolo di popoli e ancor oggi, passeggiando nella Medina, si vedono le tracce della città cosmopolita che fu. Una prova vivente di ciò è anche la lingua dialettale, un miscuglio di arabo, francese, berbero, italiano, spagnolo, maltese, ebraico…con delle reminiscenze semitiche! Eppure l’estremismo politico-religioso, vorrebbe cancellare questa ricchezza e la verità storica, costringendo il popolo tunisino a guardare solo in direzione della Mecca. I danni causati dal rifiuto di un’identità multiforme sono ancora più evidenti in Algeria, dove non solo l’eredità del passato romano è disconosciuta (e dunque degradata) in quanto retaggio del colonialismo, ma dove si compiono atti vandalici volti a distruggere il patrimonio materiale e immateriale di berberi e tuareg, disprezzati in quanto ritenuti culturalmente estranei alla “purezza” araba.
A proposito del mio pensiero iniziale, ti volevo fare una domanda molto semplice: come hai trovato la Grecia?
Ti rispondo attraverso la narrazione di una mostra d’arte contemporanea di Stefanos Tsivopoulos che ho visitato recentemente qui ad Atene al Museo dell’Arte Cicladica e che è stata fra l’altro presentata alla biennale di Venezia nel 2013. L’esposizione s’intitola “History Zero” e l’installazione principale è costituita da tre video, distinti ma collegati uno all’altro. Nel primo, si vede un immigrato africano vagabondare di notte nel centro di Atene con un carrello del supermercato in cui raccoglie rottami metallici. Nelle sue peregrinazioni, il giovane finisce in periferia, dentro una vecchia fabbrica dismessa: lì si scontra con un altro immigrato (dai tratti somatici dell’Europa dell’Est) per il possesso di un tubo di scappamento. Sconfitto e preso dallo sconforto, cammina ancora e arriva in un quartiere borghese, dove – in un cassonetto – trova un sacco di plastica pieno di fiori di carta…fatti con biglietti da cento, duecento e cinquecento euro. Il protagonista del secondo video è un artista straniero radical chic che si aggira per le strade di Exarcheia in cerca d’ispirazione. Dopo aver filmato ossessivamente con l’Ipad i graffiti che ricoprono i muri del quartiere anarchico, fa ritorno in hotel passando per il Licabetto dove, fra ville e giardini, il suo sguardo si sofferma su un carrello abbandonato in mezzo alla strada e pieno di metalli di scarto…Nell’ultimo video, il regista ci porta dentro il lussuoso appartamento di una collezionista d’arte, affetta da Alzheimer, il cui hobby è fare origami…con banconote di grossa taglia che scivolano dalle pagine patinate di preziosi cataloghi. Il cerchio si chiude. Tsivopoulos riflette sul valore del denaro da individuo a individuo e le sue conseguenze sociali, e credo che il suo lavoro sia utile per capire la Grecia di oggi. “Crisi” è diventato quasi un brand, tanto che – a questo proposito – nella Plaka si vendono delle t-shirt con slogan ironici. Ma non dobbiamo dimenticare che le implicazioni politiche cancellano agli occhi dell’altra Europa la resistenza greca, quella che si esprime come forma di lotta e protesta, ma anche come stato d’animo della dignità.
Spesso, parlando con persone che hanno conosciuto una Grecia prettamente turistica, noto che tendono a ridurne il patrimonio a quanto è visibile nei siti archeologici e nei musei. Mi viene in mente al contrario l’immenso tesoro filosofico, mitografico, letterario, che è disponibile solo ad occhi più pazienti. Credi che i Greci siano coscienti di questo patrimonio immateriale, e che lo sappiano portare come risorsa per il presente?
Qui ad Atene ho incontrato un filologo, il quale vorrebbe abbandonare l’alienazione degli studi accademici per mettere a frutto la sua conoscenza di Aristotele nel mondo della finanza. Ma lui è di Zagabria…Però ho conosciuto anche Yannis, un giovane imprenditore ateniese, ideatore del sito bigolive.org, che promuove itinerari tematici per scoprire Atene non solo dal punto di vista archeologico (e quindi, se vogliamo, più prettamente turistico) ma anche letterario e filosofico. Sempre al museo cicladico, lo scorso gennaio, ho visto una mostra che metteva a confronto le poesie di Kostantinos Kavafis con una selezione di reperti archeologici. Mi è sembrato un modo molto bello per richiamare il valore del patrimonio immateriale di cui parli e che ha ancora un’eco nel presente. Inoltre, vorrei raccontarti che in giugno, durante la rappresentazione del Filottète di Sofocle al festival di Epidauro, ho potuto osservare che la presenza degli spettatori greci non era solo una manifestazione di mondanità. Mi ha emozionato, invece, cogliere una partecipazione sentimentale allo spettacolo, soprattutto per il messaggio che sottende quella tragedia ovvero il conflitto etico tra l’astuzia (Ulisse) e l’ostinata sopravvivenza dell’onestà (Filottète), salvaguardata nel finale grazie al riscatto dalle manipolazioni (Neottòlemo).
Un’ultima domanda, la più personale ma speculare alla precedente. Quanta importanza ha nella tua vita la scoperta e l’incontro con figure del passato e con i loro stili di vita? C’è qualcosa che invidi e qualcosa che resta sempre valido?
Sono rapita dalle figure del passato! Ultimamente, per farti solo un esempio, mi sono appassionata alla storia di Gian Giacomo Porro, archeologo vissuto ai primi del novecento e morto sul fronte della Grande Guerra quando non aveva neppure trent’anni. Ho potuto leggere il suo epistolario, conservato negli archivi della Scuola Archeologica Italiana di Atene: quelle lettere mi hanno colpito non solo per le sue brillanti qualità di pioniere dell’archeologia ma anche per la sua umanità. Mi sono riconosciuta nel suo entusiasmo ed anche nella sua capacità di sopportare – talvolta con rabbia, talaltra con ironia – le difficoltà di un mestiere, già da allora precario e disseminato di ostacoli. La mancanza di fondi, gli alloggi di fortuna in cui era costretto a vivere mettevano il giovane Porro a dura prova ma alla fine, a prevalere, era sempre la magia di un piccolo stupore quotidiano e la convinzione che se, nelle notti di Rodi, un vetro rotto ti provoca una “flussione”, ti resta pur sempre la filosofia come imposta della finestra.
L’immagine è stata realizzata e concessa da Valentina Porcheddu