di Costantino Cossu *
«Mamma diceva ai due figli maggiori: “Zitti voi che siete monarchici”. Perché io, invece, sono nato nel primo giorno della Repubblica, il 3 giugno del 1946». Comincia così l’intervista curata da Loris Campetti (giornalista del manifesto dal 1978 al 2012) in cui Gianni Usai fa il racconto della sua vita. Centoquaranta pagine pubblicate dalle Edizioni del Gruppo Abele (l’associazione diretta da Don Ciotti) con il titolo “Operaio in mare aperto. Conversazione su lotta, uguaglianza e libertà”. È nato il primo giorno della Repubblica ad Arbus, Gianni Usai, in una Sardegna in cui la devastazione della guerra appena finita si sovrapponeva alla povertà di sempre. Oggi è conosciuto come fondatore della Cooperativa pescatori di Su Pallosu, nata nel 1980 praticamente dal nulla. In quell’angolo sperduto della costa occidentale dell’isola allora non c’era alcuna tradizione di pesca. Solo poche barche: ex pastori che avevano imparato il mestiere dai pescatori liguri di Carloforte e dai catalani di Alghero, unici frequentatori del litorale. Gianni Usai li mise insieme, fece capire loro che potevano crescere come impresa collettiva, superando gli egoismi e le pratiche di rapina selvaggia dei fondali. Su una barca. Crebbe in fretta, la cooperativa di Su Pallosu, e quando, nel 1998, cominciò la collaborazione con l’Istituto di biologia marina dell’Università di Cagliari i trentacinque soci divennero l’avanguardia di un progetto di ripopolamento di quelle acque, in particolare di tutela delle aragoste, quasi sparite, allora, dalla zona. Ma Gianni Usai ha una storia che comincia prima del giorno in cui, a 34 anni, decise di andare a vivere a Su Pallosu. Prima di fare il pescatore è stato operaio nelle officine Fiat di Mirafiori, a Torino, dove entrò a 16 anni come apprendista dopo che tutta la famiglia, nel 1962, si era trasferita nel capoluogo piemontese. Dalla Sardegna fuggivano. Il padre Pietro, minatore a Montevecchio, fu costretto a lasciare l’isola. Perse il lavoro durante le purghe anticomuniste che colpirono, anche nelle miniere sarde come nelle fabbriche italiane, gli attivisti della Cgil. «Mirafiori era un inferno», ricorda Usai nel dialogo con Campetti. «Entravo dalla porta numero1 insieme a un esercito di formichine. Fuori il cielo grigio, dentro un silenzio assordante. Stavo vicino ai reparti di cromatura dei paraurti, ci facevano leggere il disegno tecnico e lavorare di lima e raschietto in mezzo a un frastuono bestiale, perché i paraurti venivano immersi in bagni di acido e di conseguenza i generatori di energia erano sempre accesi. Quando ho varcato i cancelli la prima volta, mi sono detto: io qui più di sei mesi non resisto. A Mirafiori sono rimasto diciassette anni». Diciassette anni significa sino al 1979. Un periodo in cui a Mirafiori cambiarono molte cose rispetto a quando Gianni Usai ci mise piede per la prima volta, ancora adolescente. Nella conversazione con Campetti, Usai racconta come il graduale maturare di una coscienza sindacale abbia mutato i rapporti all’interno della fabbrica. Le lotte per imporre ritmi di lavoro umani e misure di sicurezza si trasformarono a poco a poco nella rivendicazione di un ruolo attivo dei lavoratori nella gestione degli impianti e nella definizione delle strategie d’azienda. Battaglie dure contro un management abituato a chiedere e a ottenere obbedienza assoluta, rese possibili da una consapevolezza di classe diffusa e matura, sino alla nascita – con la mobilitazione operaia e studentesca degli anni Sessantotto-Sessantanove – dei consigli di fabbrica. Cambiava Mirafiori e sembrava che potesse cambiare, insieme, l’Italia. Usai racconta degli anni Settanta, dell’emergere di una figura nuova, quella dell’operaio massa, legata alla generalizzazione delle economie di scala attraverso il diffondersi a tutta la fabbrica di un’organizzazione del lavoro calibrata sui ritmi della catena di montaggio. Nelle parole di Usai, che di quegli anni è stato protagonista come dirigente politico e sindacale di primo piano, rivive una grande stagione di lotte, per i diritti e per la libertà. Una stagione in cui sembrava che dalle fabbriche potesse venire una scossa per la società intera, l’indicazione di una svolta radicale. Protagonisti allora a Mirafiori erano i sindacati storici, ma insieme a loro, e per una certa fase prima di loro, i consigli. Entrarono in fabbrica anche soggetti nuovi: i gruppi della nuova sinistra e, sotto traccia, le sigle che sostenevano la necessità del passaggio alla lotta armata. Un crogiolo, un magma in cui ribollivano esperienze generazionali e visioni politiche differenti. Usai non nasconde niente delle contraddizioni e delle debolezze di quel quadro, ma sottolinea anche la forte indicazione di novità e di rottura che dalla fabbrica allora arrivava. Perché quel movimento potesse reggere, le cose avrebbero dovuto cambiare anche fuori dei cancelli degli stabilimenti. Occorreva una sponda politica e istituzionale che invece, alla lunga, venne a mancare. Stanchezza e delusione, per Gianni Usai, finirono così per sommarsi alle difficoltà di un momento difficile sul piano privato. Da qui la decisione di licenziarsi dalla Fiat, di lasciare tutti gli incarichi sindacali e di tornare in Sardegna, a Su Pallosu, a fare il pescatore. Lì cominciò un’altra storia, che ha avuto tra i suoi capitoli anche il film “Le ragioni dell’aragosta”, con il quale nel 2007 Sabrina Guzzanti ha portato la storia dell’“operaio in mare aperto” al festival del cinema di Venezia. Da Mirafiori a Su Pallosu c’è un filo che lega i due tempi della biografia di Gianni Usai. Un filo che si svela nelle parole conclusive del dialogo con Loris Campetti: «Giustizia, uguaglianza, legalità, piccole cose imparate in famiglia e riversate in tutti i passaggi della vita e del lavoro, nelle amicizie e nell’amore, nella politica e nel sindacato. Il rispetto per il lavoro tuo e degli altri, la generosità nell’insegnare ai più giovani quel che i più anziani hanno insegnato a te. Nell’officina 92 di Mirafiori come nella Cooperativa pescatori di Su Pallosu devi socializzare saperi, esperienze e responsabilità, devi avere l’umiltà di ascoltare gli altri. L’opposto di quello che oggi s’intende per leader, che è un impasto di personalismo, accentramento, presunzione, distacco dalla base sociale che ti ha scelto per essere rappresentata». Una lezione, quella di Gianni Usai, prima etica che politica. O forse politica perché etica.
* Nuova Sardegna
Scusate, ma Gianni Usai è il sosia di Gad Lerner?
Grazie!