Quando una situazione è grave, bastano poche parole per descriverla. Oggi i giornali sardi parlano del nuovo scontro che contrappone la Regione al governo Renzi: dal prossimo anno le competenze relative alle autorizzazioni ambientali necessarie per consentire la ricerca di idrocarburi passeranno allo Stato. Il progetto Eleonora della Saras potrebbe essere così recuperato. A Roma l’assessore all’ambiente Spano ha già espresso la contrarietà della Regione a questo esproprio di competenze.
Sempre ieri l’assessore Paci, in un vorticoso turbinio schizofrenico di dichiarazioni e comunicati, aveva annunciato l’intenzione della Regione di non ritirare i ricorsi contro lo Stato in materia di entrate, contrariamente a quanto stabilito dall’accordo sottoscritto lo scorso mese di luglio tra il presidente Pigliaru e il ministro Padoan: evidentemente lo Stato non ha mantenuto la parola e la Regione prova a difendersi come può.
Lo scontro sulle servitù militari non ha bisogno di essere rievocato: a Teulada però si è ripreso a sparare, in spregio alla richiesta della Regione di sospendere le esercitazioni fino al 30 settembre.
La storia insegna sempre qualcosa, a patto però che da essa si voglia realmente imparare. Negli ultimi mesi del governo Cappellacci era emerso con chiarezza quale fosse il nodo cruciale riguardante il futuro dell’isola: il suo controverso rapporto con lo Stato. La Sardegna appariva troppo debole perché troppo debole era la sua rappresentanza istituzionale, troppo debole il suo progetto di sviluppo, troppo debole il suo statuto. E troppo debole la sua classe dirigente, appiattita per convenienza (storica convenienza, direi) sulle posizioni dei grandi partiti nazionali.
Alle elezioni di febbraio questa nuova consapevolezza aveva portato da un risultato elettorale straordinario le forze sovraniste e indipendentiste, con una percentuale di consenso superiore di poco al 29 per cento, diviso però tra sedici liste presenti in sei diversi schieramenti.
Il sovranismo è entrato anche nel bagaglio ideologico di Pigliaru, declinato però in un modo un po’ bizzarro dal presidente per il quale il sovranismo è soprattutto “responsabilità di fare bene le cose che facciamo”. Troppo poco, ma soprattutto troppo semplice.
Se il sovranismo era (ed è) la volontà di governare la Sardegna come se fosse uno stato, Pigliaruavrebbe dovuto prepararsi ad una stagione di schietta conflittualità con i poteri romani, forte anche dell’esperienza di Cappellacci che, al di là delle sue inadempienze e cattive volontà, dai poteri romani è stato fortemente penalizzato (e infatti alla fine, per quanto in maniera tardiva e strumentale, si era anche ribellato).
Pigliaru poteva aprire un tavolo di confronto unico con lo Stato, trattando simultaneamente le varie vertenze ancora aperte: quella delle entrate, quella dello statuto, insieme a quelle dei trasporti, delle servitù militari, del lavoro, dell’energia, dell’istruzione, delle infrastrutture e dell’industria. Un tavolo unico in cui parlare organicamente delle politiche di sviluppo dell’isola,Pigliaru da una parte e Renzi dall’altra: da pari a pari. Ma questo Pigliaru non l’ha voluto fare.
Il presidente ha preferito invece affrontare i singoli temi uno per volta, in vertenze separate affidate nella gestione quotidiana ai singoli assessori: secondo uno schema consolidato che ha sempre visto soccombere la Regione. Dalla storia recente Pigliaru dunque non ha imparato nulla.
Non solo: la sua strategia (a mio avviso perdente in partenza) è stata anche condotta in maniera scriteriata. Perché se il rapporto dialettico con lo Stato deve essere tenuto soprattutto dagli assessori, per reggere lo scontro occorre una giunta di comprovate qualità tecniche e politiche. A poco più di dei mesi dal suo insediamento, possiamo invece serenamente affermare che la giunta Pigliaru non funziona. Per niente.
Il deficit politico è sotto gli occhi di tutti: e non è un caso che gli unici due assessori che unanimemente vengono promossi sono gli unici che hanno alle spalle una esperienza o da sindaco (Erriu) o da consigliere regionale (Maninchedda). Tutti gli altri non hanno mostrato quelle capacità, quell’esperienza e quella rete di relazioni e di rapporti che servono per sedersi al tavolo con i poteri italiani.
Il deficit di competenze poi è ancora più evidente e fare nomi darebbe persino ingeneroso. Ma di questo non si può dare tutta la responsabilità a quegli assessori che si muovono come dei fantasmi tra le stanze di viale Trento. La colpa è di Pigliaru, solo e unicamente sua: perché aveva promesso che avrebbe previlegiato le competenze a scapito delle appartenenze e invece adesso possiamo dire senza tema di smentita che ha fatto esattamente il contrario, con il bilancino in una mano e il manuale Cencelli dall’altra, arrivando a soddisfare (si dice) perfino le richieste della massoneria.
No, così non va. Il rimpasto poteva servire due mesi fa, peraltro per consentire al presidente di blindare alcune posizioni chiave del suo esecutivo per reggere l’urto del congresso regionale del Pd e della nuova segreteria. Adesso no, adesso bisogna azzerare tutto, buttare questa giunta a mare e rifarla da capo. Sei mesi sono passati e non c’è più tempo da perdere. Perché in momenti di crisi il tempo è una risorsa scarsa che non va sprecata, e questo lo aveva spiegato qualche anno fa proprio il professor Pigliaru in un suo intervento sulla Nuova Sardegna.
Tenerci questi assessori è un lusso che da sardi non ci possiamo più permettere.
Questa giunta è tutta sbagliata e tutta da rifare. Adesso servono persone competenti e politicamente capaci: Pigliaru rompa gli indugi e apra immediatamente la crisi: per il bene stesso del suo progetto politico. Perché se non lo fa lui, sarà costretto a farlo dal nuovo segretario regionale del Pd. E abbia anche il coraggio di cambiare strategia: basta singole vertenze ma un tavolo unico con il governo per affrontare la crisi, ai massimi livelli istituzionali. Altrimenti andrà a schiantarsi, esattamente come tutti i suoi predecessori. E i sardi, purtroppo, con lui.