di Filippo Soggiu
Quando penso o parlo di Maria Carta, mi assale una certa emozione. Inutile girarci intorno, lo dico da uomo. L’ho conosciuta all’inizio degli anni Ottanta, era nel pieno della sua popolarità, delle sue energie, della sua bellezza. Una bellezza solare e profondamente mediterranea, una donna sarda con un viso di una dolcezza e una forza incredibili. Il frutto del sogno di un artista. Quel viso aveva la capacità di rappresentare l’anima stessa di tutte le nostre donne, i loro sogni, le loro speranze. L’ho conosciuta a Pavia in occasione di un suo affollatissimo concerto al Teatro Fraschini. Alla fine dello spettacolo, con grande fatica per la folla che la circondava, sono riuscito ad avvicinarmi al suo camerino, e, in qualità di presidente del Circolo “Logudoro” di Pavia, le ho portato i saluti dei nostri iscritti. Un incontro abbastanza formale perciò, ma, essendo Maria Carta originaria di Siligo, il fatto che il nostro circolo si chiamasse proprio Logudoro le avrebbe certamente fatto piacere. Mi ha preso sottobraccio e siamo andati ad accomodarci in un angolo tranquillo.
Voleva sapere tutto sulle nostre attività: cosa si organizzava, quali erano i rapporti con la cittadinanza e quanti erano i soci. Si vedeva che l’entusiasmo che mettevo nel racconto della nascita del circolo la colpiva, e mi accorgevo che era molto interessata per le cose che volevo fare per aumentare la conoscenza della Sardegna in questa città. “Quando ricevo un invito da un circolo sardo” mi disse in quell’occasione, “vado sempre con piacere. Ogni volta mi stupisco per le cose che riuscite a fare, per le tante attività culturali, per i dibattiti che organizzate e per la voglia che avete di stare insieme”. Mentre l’ascoltavo, mi accorgevo che diceva queste cose non certo per semplice cortesia, sapevo che poteva limitarsi alla richiesta di qualche informazione e alle solite frasi di circostanza. Ma a lei, in qualche modo, i circoli interessavano sul serio e cercava di capire come mai i sardi dopo un po’ che stanno in un posto sentono l’esigenza di farne nascere qualcuno. Perché i sardi hanno una dannata voglia di ritrovarsi e ragioni profonde che li spingono a farlo. Sennò perché, nonostante l’emigrazione, sentono così forte l’esigenza di non separarsi mai del tutto dalla vita della Sardegna o del proprio paese? Anch’io me lo son chiesto. E ancora oggi, se cerco di spiegarmelo, nonostante l’età mi accorgo di non averlo ben chiaro in testa. E poi voglio parlare di Maria Carta, questa cantante che per me ha rappresentato qualcosa di speciale. La sua voce ha sicuramente saputo farmi conoscere qualcosa di più sull’anima profonda del mio popolo. Quello stesso “qualcosa” che tutti noi sappiamo di avere in termini di valori, ma che non siamo mai riusciti a tirar fuori, a spiegare.
Maria Carta con la sua voce, con la sua figura, con la profondità dei suoi sguardi, è riuscita ad aprire uno squarcio nel muro che ci ha obbligato per tanto tempo a non vederci. Ha dato il giusto valore alle poesie nella nostra lingua e ai suoi poeti. In quel primo incontro le ho parlato delle nostre attività di circoli, dello sforzo che andavamo facendo per favorire la conoscenza delle nostre bellezze anche in termini turistici. “Ho sempre pensato che i circoli sono delle nostre piccole ambasciate” mi diceva sorridendo e convinta Maria Carta. E non fingeva. Quegli occhi non erano quelli della solita cantante tormentata dalla ricerca del successo, comunicava qualcosa di più profondo: una partecipazione umana ai problemi della vita dei sardi profondamente sentita. “Penso che i circoli dovrebbero avere un ruolo diverso per la Sardegna. Certo, senza perdere la loro identità di luoghi d’incontro, ma le nostre autorità in Sardegna dovrebbero vedere la loro funzione con occhi diversi, scommettendo sulle loro capacità di conoscenza del territorio dove abitano. Voi, molto prima di me, avete fatto conoscere la nostra cultura in tutto il mondo. Le vostre esperienze rappresentano un patrimonio di conoscenza poco esplorato” diceva pensosa, “e mi dispiace che il vostro ruolo non venga valorizzato nel migliore dei modi. I vantaggi che potreste dare alla Sardegna sarebbero davvero tanti”. Erano parole che mi stupivano, dette da lei in quel primo incontro. Mi stupivano perché comunicavano una conoscenza dei dibattiti dentro ai circoli che andava ben oltre la semplice cortesia. Erano, cioè, pensieri di una persona che la realtà la sapeva vedere per quello che era, con raziocinio e serietà. Di una persona che sapeva quanto i problemi della Sardegna dal dopoguerra in poi sono aumentati enormemente, in maniera tumultuosa e disordinata, e a cui nessuno sembrava davvero fare caso.
Data la mia età, ho avuto modo di conoscere le crisi morali e culturali che hanno attraversato la mia terra fra gli anni Cinquanta e Sessanta: l’assalto della modernità ai nostri paesi che senza mediazioni abbacinava con i suoi lustrini la mia giovane generazione, aggredendone i valori più profondi. L’impatto disordinato alla diligenza sarda, alla sua anima, era incessante e prendeva le forme più strane. Vedevo in quegli anni i giovani del mio paese giocare a fare i continentali, ad atteggiarsi a persone “civili”, come se noi una “civiltà” non l’avessimo: era sconsolante in quei tempi sentire certi discorsi, quella voglia di liberarsi di tutto il nostro passato. Certo, non siamo noi, emigranti di quella generazione, a non sapere quanto la nostra terra sia stata avara nei nostri confronti.
Emigrare è sempre una sconfitta: vuol dire che dove sei nato sei in più e se vuoi quel minimo di dignità che ti spetta come essere umano, la devi cercare fuori, devi partire. Ognuno di noi sa quanto simili passaggi sono costati a livello esistenziale: quali sono state le angosce ma anche le ricchezze che ha provocato il distacco dalla propria famiglia, dal paese. Dagli affetti sicuri. Emigrare è un fatto dalle conseguenze non sempre prevedibili. Ma io credo che della nostra vita non dobbiamo negare nulla, compresi gli sbagli: la vita è un affare troppo complesso! Solo che ritengo che bisogna sempre tener presente il rispetto per quel che siamo, del luogo da dove veniamo, dei nostri valori. Quei valori che ci accompagnano nella nostra voglia di fare e che ci aiutano sempre nella realizzazione dei nostri sogni. E noi sardi non siamo diversi dagli altri, siamo uomini fra gli uomini. Per questo ritengo che la nostra cultura sia una cosa importante: un tassello, un granello di sabbia nell’universo, un mattone, una scaglia di granito dove da millenni si attacca il muschio dei nostri pensieri.
Maria Carta, con il suo modo di fare, con la sua semplicità, in qualche modo sapeva rappresentare una parte dei miei ragionamenti sul significato dell’esistenza. “Siete voi” mi ha detto, “con i vostri circoli, che per tutti questi anni avete coltivato le espressioni più profonde della nostra cultura, invitando i nostri poeti sardi per le gare, i nostri cantanti, i gruppi di canto a tenores. Più di altri avete contribuito a tenere in vita la nostra cultura di popolo chiamando nei vostri circoli tanti gruppi di tradizione che operano anche nei paesi più sperduti”. Ed era vero. Perché, forse per rivedersi con i compaesani o per orgoglio di campanile, nei nostri circoli le serate dei gruppi che venivano dalla Sardegna sono sempre state molte.
Mi sono sentito molto legato a Maria Carta e a lei mi ha unito un certo modo di sentire i problemi, una certa idea del ruolo dei circoli degli emigrati. Ed è anche la ragione per la quale, negli anni Ottanta e Novanta, cioè il periodo in cui ho ricoperto la carica di presidente della FASI ho continuato ad organizzare degli incontri con Maria Carta. In molti, per esempio, ricordano ancora uno spettacolo con il “Duo Puggioni”. Ma molti altri e numerosi sono stati gli appuntamenti.
Poi è venuto il periodo della sua malattia. La notizia che Maria stava male si è sparsa nel mondo dei circoli sardi in un baleno, e molti di noi ne sono rimasti sinceramente colpiti. Ma lei ha cercato di non pensarci, continuando tranquilla i suoi spettacoli. Ricordo il nostro incontro nel 1993, per le manifestazioni del circolo “Nuova Sardegna” di Peschiera Borromeo: 10 giorni d’incontri con un cartello di manifestazioni ricchissimo di appuntamenti, non solo canti e balli, ma proposte per viaggi, dibattiti e mostre d’arte sarda. Anche Maria Carta era stata invitata, ospite d’onore del circolo. Era sofferente e i segni della malattia erano evidenti. Si era in luglio e verso sera Maria aveva lo spettacolo. L’accompagnai in teatro. “Stammi vicino, e se vedi che sto male reggimi” mi mormorò prima di cominciare. Ho sofferto con lei in quelle ore, ma lo spettacolo andò bene e il pubblico, mi ricordo, rimase affascinato dalla forza del canto di quella donna. Molti non riuscirono a trattenere le lacrime.
Lo spettacolo più emozionante l’ho vissuto con lei il giorno dopo. Il circolo aveva voluto che si celebrasse una messa cantata in sardo nella chiesa di Peschiera. Maria Carta vi avrebbe partecipato insieme al Duo Puggioni, al suonatore di launeddas Luigi Lai e al coro del circolo. Come nella nostra migliore tradizione, con i nostri canti sacri Maria Carta doveva scandire i passaggi della celebrazione religiosa. Dentro e fuori della chiesa si assieparono migliaia di persone. La partecipazione della gente fu altissima. Molti sardi, poi, sapevano della malattia di Maria, delle sue condizioni di salute e volevano starle vicino, nel tentativo quasi di proteggerla dal suo male devastante. Alla fine della messa, per Maria Carta fu un trionfo. La cattedrale di Peschiera Borromeo fu attraversata da un tenero, lunghissimo applauso, per una donna, per la forza del suo canto. Lei ringraziò sorridente: “Mi avete regalato con il vostro affetto un altro anno di vita”. Un anno dopo Maria Carta ci ha lasciato per sempre.
Un saluto affettuoso a Filippo Soggiu e un ringraziamento per il suo forte impegno a favore della diaspora sarda.