di Fabrizio Palazzari *
Lino Concas, poeta e insegnante di italiano nato a Gonnosfanadiga nel 1930, laureato in teologia ed emigrato nel 1964 a Melbourne per assistere le comunità di immigrati sardi, è oggi considerato, come ha evidenziato Marzia Caria, uno dei rappresentanti di maggiore rilievo della letteratura italo-australiana, ben conosciuto dagli addetti ai lavori e apprezzato dai critici austrialiani. Non è difficile capire perché la poesia di Lino Concas occupi uno spazio così significativo nell’ambito della cosiddetta “letteratura dell’emigrazione” italo-australiana. Ciò che la rende alta e allo stesso tempo profonda non sono soltanto l’ampiezza e il rilievo della sua produzione o la complessità dei temi trattati. Quanto, piuttosto, la capacità di saper entrare “nell’animo delle cose e delle persone”e di costruire, come lui stesso dichiara, “quel nostro IO non circoscritto nello spazio”. Una ricerca di un’ubiquità poetica che è allo stesso tempo geografica, antropologica e linguistica. La lingua sarda e quella aborigena si fondono, infatti, in un sincretismo linguistico dove, come autentiche isole lessicali, emergono all’interno di un uso, consapevole e alto, della lingua italiana che diventa vero elemento di equilibrio e spazio di confronto. Anche per questo il suo percorso, personale e letterario, può essere considerato un vero e proprio “walkabout”, per nulla dissimile dalla pratica erratica che spinge gli aborigeni australiani a seguire una via ancestrale per giorni, settimane e anche mesi. Un cammino lungo, interiormente sofferto e pienamente vissuto che si esprime in modo spontaneo e che oggi ritorna a noi attraverso canali di fortunate coincidenze, così lontane dai circuiti classici che di norma decidono della consacrazione di un autore. Un ritorno che, di fatto, ci richiama alla responsabilità di essere pronti a raccogliere e fare nostro il suo messaggio. Sebbene viva ancora a Melbourne con la sua famiglia, si può dire che lo iato originario della sua partenza è stato superato. Quell’ ”IO a metà” di tante sue poesie è stato ricomposto e il Lino Concas di oggi, che ci racconta la sua vita, è un vero “poeta di ritorno” che forse non ci ha mai lasciato.
Lino, innanzitutto grazie per averci concesso questa intervista. Potresti raccontarci perché sei emigrato in Australia? E’ stato per me quasi un colpo, perché non avevo nessuna intenzione di emigrare in Australia. Sennonché, ho trovato un amico il quale mi ha invogliato a partire, avendo bisogno di questa assistenza per gli emigrati. Sono partito nel 1964 e mi sono fermato a Melbourne, ho poi girato per tutta l’Australia, incontrando sardi e non sardi, tutte le comunità e, per quanto mi è stato possibile, ho dato la mia assistenza e il mio aiuto. Successivamente, a partire dal 1970, ho insegnato italiano per ventotto anni, in un college dove molti degli studenti erano di origine italiana. Devo anche dire che la mia attività di poeta non è iniziata in Australia. Già in Sardegna avevo presentato alcuni miei lavori, che sono stati poi pubblicati, nel 1965, dalla casa editrice Omnia di Roma. Da allora ho portato avanti un’intensa attività letteraria che oggi annovera dieci volumi di poesie. Il primo è “Brandelli d’anima” pubblicato, come dicevo, nel 1965, mentre l’ultima pubblicazione è stata, nel 2009, “Yurlunggur”. Si tratta di una parola aborigena che significa “serpente arcobaleno” e richiama un loro Spirito Creatore. Inoltre ho in preparazione un ulteriore volume.
La tua attività letteraria è una passione che ti ha accompagnato sin da prima dell’approdo in Australia. Hai scritto solo poesie oppure ti sei dedicato anche ad altri generi letterari? Nel caso, perché la poesia? In verità ho scritto anche alcuni racconti, però non li ho mai pubblicati. Ho cercato di pubblicare soltanto le poesie. Mi sono soprattutto concentrato su questo, perché con la poesia entro nell’animo delle cose e delle persone. La poesia non è altro che la ricerca di se stessi, la ricerca dell’essere profondo dell’uomo e quindi mi dà questo sollievo, mi dà questa possibilità di potermi tuffare, quasi, nell’essere umano e di approfondirne i suoi sentimenti. Che poi sono i sentimenti miei e i sentimenti di tutti.
Una tematica ricorrente nella tua poesia, soprattutto quella degli inizi, è la Sardegna. L’isola ha sempre un posto speciale nel tuo immaginario, archetipo di tutti i luoghi e custode di memorie giovanili e ancestrali. Un’isola però vissuta e immaginata da lontano, dal di fuori. Potresti raccontarcela? Nella mia poesia sono partito soprattutto dagli aspetti sentimentali e familiari per poi sviluppare altri temi, come nelle raccolte “Ballata di vento” e “Uomo a metà”, che hanno riguardato soprattutto l’ambiente e la cultura sarda, con i suoi pregi e i suoi difetti. Ho accennato anche al periodo triste del banditismo, che ho vissuto con grande tristezza e con un forte malessere. Poi mi sono soffermato sulla vita agropastorale di questa terra, che possiamo considerare come la sua radice. Infine ho guardato ai suoi monumenti, ai suoi nuraghi, ritornando indietro nella sua storia. Una Sardegna vista però sempre dal di fuori, in quanto io ero emigrato e come emigrato ho rivissuto questa mia terra.
Nella tua poetica la presenza di immagini della Sardegna non si pone mai in opposizione a quelle dell’Australia. Le due isole continente sono spesso evocate insieme, quasi a completarsi – come ha scritto Luisa Pèrcopo – in un “sincretismo affettivo” dove le immagini mediterranee e agropastorali si intrecciano con quelle animiste e totemiche degli indigeni australiani. In che modo la poesia e l’accostamento delle due culture, sarda e aborigena, ti hanno consentito di compenetrare e comprendere pienamente l’una attraverso l’altra e, nel caso, potresti richiamare alcuni esempi di affinità? Arrivando in Australia e vedendo questo popolo aborigeno emarginato ho pensato anche alla mia terra. All’origine della mia terra e al mio popolo che è stato praticamente dominato, combattuto, sfruttato. Tra questi due popoli, non dico la Sardegna di oggi ma la Sardegna di ieri, c’è in un certo qual modo una relazione e una certa affinità. Nella cultura aborigena, per esempio, troviamo il Dio Baiame che è il Dio Creatore, se invece osserviamo la cultura sarda troviamo il Sardus Pater che non è altro che il nostro Padre, il Creatore della nostra Terra. Lo stesso si può dire per il culto dell’acqua, dato che in entrambe le culture l’acqua è un elemento spirituale. Inoltre noi abbiamo le janas, piccoli spiriti, le piccole fate. E, ancora una volta, troviamo anche in loro questi spiriti, gli Spiriti Creatori che sono i protettori di questo popolo. Quindi c’è una certa somiglianza culturale e una certa affinità direi spirituale tra questi due popoli. Tutto questo mi ha portato, anche nella poesia, a comporre questo binomio spirituale tra Sardegna e Aborigeni d’Australia
Il mondo agropastorale della giovinezza, di assoluta centralità nelle tue prime raccolte, lascia il posto nella produzione più recente a una visione assai più sofferta e disincantata del mondo contemporaneo e delle sue complesse criticità. Al centro di questo mondo e di questa vita poni l’Uomo. Com’è l’Uomo di Lino Concas? Ho cercato di presentare i problemi della società di oggi non perché mi interessassero come poesia ma perché fossero espressione o inizio di una riforma di noi stessi. Pertanto, ecco che uno dei suoi aspetti è proprio l’Uomo. La ricerca dell’uomo, entrare dentro l’uomo e trovarne, sviscerarne, la sua anima. Proprio per questo lo troviamo in quasi tutte le mie raccolte: “Uomo a metà”, “L’uomo del silenzio”, “L’altro uomo”, “Il mio uomo”. Ho scelto questi titoli proprio perché mi interessava che fosse l’Uomo il centro della nostra vita e della nostra sensibilità; attraverso uno sviluppo interiore che ci potesse aiutare a riscoprire quel forte bisogno di amore e reciproca fratellanza che invece, molte volte, manca in noi stessi. Rimarco fortemente questo bisogno in quanto io stesso mi pongo una colpa, e dico a me stesso che forse è colpa mia e colpa di tutti noi. In altri termini, che il male della società è anche il nostro male, ovvero il non fare più di quanto noi potremmo fare. E questo non è altro che il non saper sviluppare un pò di più questo senso di amicizia, di fratellanza e di cooperazione.
Quando hai parlato del tuo iniziale interesse per la cultura aborigena hai fatto un confronto tra la Sardegna di ieri, quella che tu avevi lasciato, e il mondo aborigeno che hai conosciuto. Però tu stesso hai detto che questa similitudine vale soprattutto per il passato. Quanto trovi diversa, oggi, la Sardegna rispetto ad allora? Manco dalla Sardegna da cinquantanni e quando la lasciai era un periodo, se vogliamo, di relativo benessere. Nel mondo agropastorale i campi erano coltivati e la pastorizia si sviluppava ed era sviluppata. Poi ha incominciato a prendere piede l’idea del lavoro in fabbrica, con il conseguente abbandono dei campi e della pastorizia. Per cui ognuno ambiva a trovare un lavoro soprattutto nella nascente industria, ma le fabbriche in Sardegna non c’erano ed ecco che così e incominciata la grande emigrazione, che ha portato a un impoverimento della Sardegna e della società sarda. Dalla Sardegna sono emigrati in circa 400.000, quasi un quarto della popolazione. Oggi, ritornando dopo cinquantanni, vedo una Sardegna diversa. Una Sardegna che si è sviluppata, nelle sue case bellissime e nelle sue industrie. Allo stesso tempo si è però impoverita, perché quelle industrie oggi sono chiuse e il popolo sardo vive senza lavoro. C’è disoccupazione, c’è una lamentela continua che colgo ogni giorno parlando con i miei paesani. Per cui vedo una Sardegna certamente molto povera, i giovani che non ci sono, paesi quasi spopolati di gioventù. Tutto questo mi rende triste perché pensavo, ritornando, che avrei trovato una Sardegna migliore.
Da dove dovremmo ripartire? La cultura è molto importante. Penso che ci sia già in Sardegna un ambiente culturale abbastanza elevato e basterebbe leggere i tanti autori che prima non c’erano. Si conosceva Grazia Deledda e poi non si conoscevano molte altre cose della Sardegna. Oggi invece abbiamo degli scrittori abbastanza conosciuti anche all’estero, quindi posso dire che la Sardegna non è più una cenerentola nel campo culturale ma è abbastanza conosciuta anche qui da noi in Australia.
In conclusione, rievocando il “perchè te ne vai?” che tuo padre, sofferente, ti rivolse il giorno della tua partenza, vorrei chiederti questo: se potessi, oggi, cosa gli risponderesti? Oggi, forse, gli risponderei chiedendogli scusa. Una scusa che porto sempre con me. Per tutti i cinquantanni che io ho vissuto in Australia, ho sempre vissuto con il pensiero di quei momenti e oggi, rivedendo mio padre, gli direi “perdonami se ti ho lasciato”.
* Tramas de Amistade