Stefano Soddu, che di mestiere è scultore, e di vaglia, ha scritto un libro e l’ha intitolato Shanghai (ABEditore ). Come quel gioco della mia infanzia, legnetto dopo legnetto, districa con metro che lega i pensieri uno all’altro con fili che solo il caso è stato capace di concatenare, e li mette giù nella carta così come vengono, a raccontare sensazioni che hanno a che fare della sua infanzia . Come sentissi l’eco di un organetto diatonico, muovo i piedi in un ballo che so di riconoscere, leggendo questo libro, lui nato a Cagliari nell’ottobre del ’46, io guspinese venuto al mondo giusto venti giorni prima: nel 1950 ero nel capoluogo sardo a seguito di babbo militare, con mamma e mio fratello Ugo. E d’estate naturalmente si andava tutti al mare al Poetto. “La spiaggia di sabbia bianchissima dava su un mare sempre azzurro. Piatto col maestrale, dagli alti cavalloni col vento di levante… a costruire castelli, torrioni, fossi con l’acqua, sfere di sabbia (bombe) che accumulavo ben disposte sulla sabbia asciutta.” (pag. 61). Dopo la pausa di mezzogiorno non faceva a stare in spiaggia (perdonate il sardismo), ti staresti ustionato la pianta dei piedi. Ci si buttava sotto quei casotti dove ci si cambiava e si metteva il costume da bagno. E nonostante l’aria calda che toccava respirare, ci si buttava sugli asciugamani in attesa che il sole riprendesse a scendere un poco. Forse addirittura prendevamo sonno anche se dopo mezz’ora il sudore sul collo ci avrebbe inesorabilmente destato. La sabbia era bianca che farina e il mare soleva accarezzarla con una risacca dolce e ritmata. Secchiello e paletta da non dimenticare a casa. Formine di latta per scolpire la rena di improbabili stelle marine. La buca che improvvisamente si riempiva d’acqua salata, a formare un piccolo lago, che allora di piscine non si aveva ancora la nozione, né forse esisteva parola, almeno nel vocabolario di famiglia. Questo libro ha su di me l’effetto della madeleine di proustiana memoria, a lui quel biscotto “aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… ( M. Proust: Alla Ricerca del tempo perduto) a me, e a Stefano che l’ha scritto, l’illusione di un possibile eterno ritorno dell’età magica dell’infanzia “in cui ogni giorno pareva diverso dall’altro e le scoperte del nuovo di giorno in giorno si stratificavano, come pagine di un libro, in conoscenza”. (pag.62). Lui qui al circolo culturale sardo di Milano dove il libro è presentato, dice che di famiglia “stavano bene”, erano ricchi gli ribatto: il babbo si era laureato in chimica a Roma ed era direttore di fonderia, la famiglia viveva in un appartamento del palazzo Valdes, stile liberty, la parte più antica si affaccia sul Bastione di Saint-Remy, il salotto di Cagliari. Tanto per darvi un’idea di come andavano le cose allora in Sardegna, noi si stava in due stanzette e la cucina era in comune con un’altra famiglia di militari. Però c’era il miracolo dell’acqua che bastava aprire il rubinetto perché se ne sgorgasse, nella casa di Guspini toccava trasportarla “a marighedda” e fare la coda al rubinetto comune della piazzetta, alla fine di vicolo Montevechio. Dove le donne si davano appuntamento per spettegolare sulle vicende del vicinato e de”ttottu sa bidda”. E’ da quelle parti che ho imparato il sardo, visto che a casa mia si erano messi in testa l’infausta idea di crescermi “all’italiana”. Dice Stefano che da loro si parlava il dialetto, anzi il suo babbo di ritorno dall’università romana, era portatore di un lessico “antico”, con parole che non si usavano più da una vita e inevitabilmente facevano ridere gli amici del bar quando le ritirava fuori. Nel 1960 la famiglia Soddu si trasferisce a Milano ( noi Portas eravamo continentali già dal ’52, correndo sempre dietro al reggimento carristi di babbo: divisione “Centauro”) e anche Stefano viene iscritto, suo malgrado e sua insaputa, a quella società di disperati i cui componenti sono destinati a convivere con l’eterna domanda interiore che molto semplificando diremmo di carattere identitario. Più banalmente declinata in un infinito sottosistema tipo: ma quale è la mia vera casa, la mia vera lingua, o per dirla con Bruce Chatwuin: Che ci faccio qui? Luca Nicoletti, storico dell’arte che si è occupato di pittura del tre e cinquecento nell’Italia centrale nonché di pittura scultura e grafica del secondo novecento in quella settentrionale, presente qui al circolo e scritto la prefazione al libro di Soddu, tenta di dare una risposta e dice di un: “Flusso di coscienza, ricordi che vengono come fossero ciliegie che si staccano dal ramo. Qualsiasi libro di memorie non è mai un libro “neutro”. Questo è utile anche per chi deve scrivere dello Stefano scultore. Cosa rimane alla fine della lettura? Odori, sensazioni e due elementi di fondo: la Sardegna e la Milano degli anni 50/60 del dopoguerra. Viste ambedue da un punto di vista estetico, senza aver subito la guerra. Lavoro di scrittura su un’idea di unità perduta, con una struttura a frammento con un susseguirsi di immagini molto moderno, tipico della letteratura del secondo novecento”. L’altra presentatrice del libro, Zaira Di Mauro, psicologa e psicoterapeuta,che si cimenta nell’ardua impresa di rispondere al quesito di una vita che si interroga quotidianamente sul tema dell’identità è totalmente coinvolta nella problematica, nata com’è a Gavoi da madre sarda e padre siciliano, a quattordici anni trasferita a Palermo con la famiglia. Sentite come ne dice: “Cos’è la magia? E’ l’incantesimo che sta dietro alla realtà. Tutti noi siamo immersi in un incanto, che si può esperire mediante la poesia. La Sardegna è una terra incantata. Una terra di streghe, misteriosa, strana, silenziosa, malinconica. Chi ci nasce sarà sempre sardo. E forse anche i suoi figli. Essere “sardo”consente di vedere il mondo in modo diverso. E questo libro di Stefano Soddu è come fosse un regalo della sua poetica. Di come lui vede e interpreta la vita. Ogni immagine è un incontro con una atmosfera perfetta. E anche nella sua scultura traspare una sorta di purezza sarda. Questo essere selvatico della verità. Sardegna come luogo al di là di tutto. Costretti a vivere una atmosfera nostalgica e drammatica della vita. Costretti, i sardi, a vivere la contraddizione quotidiana: di amare e nello stesso tempo di odiare la Sardegna. Quando a Palermo chiedevo a mamma, cosa ti manca della Sardegna mi rispondeva: mi mancano le pietre. La Sardegna è una prigione. E’ un luogo senza uscita del pensiero: sono sardo e non posso non esserlo, non posso essere altro. L’identità è una gabbia dorata che si deve poter modificare nel tempo, deve essere plastica. La Sardegna è la madre ossessiva, incestuosa”. E allora qui tutti i presenti vogliono dire la loro storia di immigrati, da Pierangela Abis che presiede il circolo e dice del suo periodo di rifiuto di tutto quello che fosse sardo, i primi anni della sua venuta a Milano ad Antonio Coloru, 81 anni di Ozieri che si lancia nella recita di una sua lunga bella poesia in lingua siciliana, in onore di Zaira, :”Palemmo bedda, fimmina cuccada…”, roba che solo nei circoli sardi del continente! Di Stefano Soddu scultore dirò solo che è dagli anni sessanta che ha iniziato a manipolare plastica e rame, che ha esposto opere dappertutto in Italia e mezza Europa, che di arte scrive divinamente (L’evoluzione nell’arte consiste nel mutamento della tradizione da forme di regole omogenee e accettate dai più a forme eterogenee, sempre legate anche se non coerenti, con le esperienze del passato, da “Bronzo materia e spirito”, Silvana Editoriale). Pensa, come uno dei suoi maestri Joseph Beuys che “è necessario strutturare la vita in qualcosa di interessante, di trasformare la vita in un’opera d’arte”. Anche per questo segue il lavoro della moglie Gabriella Brembati, che dirige una galleria d’arte a nome “Scoglio di Quarto” di cui loro scrivono essere: “uno spazio attivo posto idealmente tra l’a
ntico Naviglio di Leonardo e il futuro della Nuova Arte, approdo per artisti già noti, punto di partenza per giovani artisti”. Gabriella, detto fra parentesi, è un vulcano di attività e di simpatia, appena la conosci non puoi non innamorartene (ndr. S. Soddu) ha imparato cose di Sardegna da scriverci dieci libri. Con Stefano siamo vecchi amici, pensate che già più sessant’anni fa frequentavamo lo stesso mare incantato, al Poetto di Cagliari.
SARDEGNA TERRA INCANTATA: CHI CI NASCE SARA’ SEMPRE SARDO. IL LIBRO “SHANGHAI” DI STEFANO SODDU PRESENTATO AL C.S.C.S. DI MILANO
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